"The impossible exists only until we find a way to make it possible" Mike Horn

lunedì 16 dicembre 2019

Oltre le nuvole: il mio primo libro!








OLTRE LE NUVOLE,
il mio primo romanzo,
DISPONIBILE SU AMAZON
KINDLE E CARTACEO


Oltre le nuvole di [Romano, Cristina]
                                                                                                        Ecco i link: Kindle - Cartaceo




TRAMA
Oltre le nuvole racconta la storia di Dominique, giovane giornalista francese che, per mestiere, scrive di montagna. Sembra che nulla possa fermare la carriera del giovane, fino a quando un evento inaspettato durante un reportage in Patagonia manda in frantumi la sua visione del mondo. Soltanto un viaggio in una terra lontana gli permetterà di prendere le distanze dalla sua vita e cominciare a rimettere insieme i pezzi. Ma manca ancora qualcosa, il suo rapporto con la montagna, teme, non sarà più lo stesso. Un’email inattesa, tuttavia, lo metterà di fronte ad un bivio: rinunciare per sempre ai suoi sogni o sfidare un Ottomila per scrivere un reportage sulla denuncia dei danni ambientali dell’alpinismo commerciale.



domenica 20 maggio 2018

Racconto breve: Con i miei occhi

All rights reserved
Foto: copyright © 2016 Andrea Giuseppe Sanfilippo
L’aereo sta per toccare terra e dal finestrino guardo la città avvolta nella notte, rischiarata dai riflessi blu dei minareti illuminati. Un brivido inaspettato mi scorre lungo la schiena.
Attraverso a passo spedito l’aeroporto deserto e all’uscita trovo Claudio ad aspettarmi, viso tirato e sigaretta in bocca.
"Non occorreva che venissi" dico.
"Non mi sembrava il caso di farti andare in giro da sola a quest’ora" ribatte. Ma è chiaro che non aveva alcuna voglia di venirmi a prendere.
Lungo il tragitto in auto restiamo in silenzio. Arrivati in albergo mi saluta frettolosamente, dandomi appuntamento per la mattina successiva. 
Entro nella mia stanza, pareti gialle, un letto singolo con lenzuola chiare, una luce flebile sul comodino che illumina una copia del Corano, l’odore della moquette che mi fa starnutire. Sono stanca e mi butto sul letto. L’immagine di Sandro fa capolino tra i miei pensieri facendomi sussultare. A fatica la scaccio via e cerco di abbandonarmi al sonno.
Il mattino successivo raggiungo Claudio nella hall. Lo scorgo seduto su un divano poco distante dalla grande vetrata che dà sulla piazza della Moschea intento a sfogliare degli appunti.  Sto per sedermi accanto a lui quando un boato ci coglie di sorpresa. La grande vetrata va in frantumi ed un’ondata di detriti invade la hall.
Claudio mi prende per un braccio: "Presto Lara! Prendi la macchina fotografica e corriamo a vedere cos’è successo!" mi dice concitato, una nota di euforia nella voce. 
Ho un moto di esitazione ma afferro la macchina e ci tuffiamo nel fiume di gente che nel frattempo si è riversata per strada. Al centro della piazza nulla resta di quel basso palazzo color sabbia se non i marmi coperti di polvere dei minareti crollati, le macerie da cui spuntano libri, tappeti, lembi di vestiti, visi sanguinanti. Urla e pianti si levano verso il cielo mescolandosi alla densa nube di polvere e all’odore acre del sangue. 
Comincio a scattare foto una dopo l’altra. La macchina fotografica è una mia naturale appendice e la guerra uno spettacolo al quale sono ormai assuefatta. Quasi non sento più le grida della gente terrorizzata, i gemiti dei feriti, le sirene delle ambulanze. Vedo Claudio gesticolare da lontano, forse mi sta urlando qualcosa, ma non riesco a sentirlo o forse non voglio, le orecchie ovattate e la mente immersa nelle immagini che l’obiettivo cattura senza sosta. 
D’improvviso un uomo mi si para davanti, interrompendo la mia macabra danza tra le rovine. Urla qualcosa in Pasthu, mi strappa via la macchina dalle mani e mi spintona di lato. Rimango con le mani a mezz’aria, incapace di reagire. L’uomo continua ad urlare a pochi centimetri dal mio viso e ad indicare qualcosa dinanzi a me: ai miei piedi c’è una giovane donna riversa su un pezzo di marmo, il velo a coprirle il viso ed il corpo di un bambino che spunta dai lembi dell’abito insanguinato. 
Rialzo lo sguardo incrociando quello dell’uomo che mi sta vomitando addosso tutto il suo odio: ai suoi occhi sono soltanto una occidentale, come tale responsabile di questa e di molte altre guerre; una tra i tanti giornalisti che si aggirano sui campi di battaglia come avvoltoi pronti ad avventarsi con i propri obiettivi su quel che resta della vita e della dignità del suo popolo. Vorrei dire qualcosa ma le parole mi si bloccano in gola. 
Colpi d’arma da fuoco risuonano d’improvviso nella piazza, mentre la folla impazzita scappa in ogni direzione. La donna ai miei piedi emette un gemito nel tentativo di rialzarsi; tendo istintivamente le mani verso di lei per aiutarla, ma l’uomo mi scaccia via in malo modo. Nello stesso istante sento afferrarmi per un braccio.
"Che stai facendo Lara?!" mi grida Claudio. Cerco di divincolarmi dalla sua presa: non posso andar via, voglio aiutare quella donna ed il suo bambino.
"Ma cosa vuoi fare? Lo vedi cosa sta succedendo qui? Andiamocene!"
Claudio mi trascina via, ma continuo a voltarmi indietro cercando invano il viso della donna ormai inghiottito dalla coltre di polvere.
Arrivati in albergo, Claudio sale veloce le scale per recuperare il portatile e mettersi subito al lavoro: "Abbiamo tantissimo materiale!" mi ha detto entusiasta. Lo guardo e mi rendo conto, ora piu’ che mai, della persona che è: nulla di tutto questo lo colpisce. Per lui non si tratta di vite strappate, storie interrotte a metà, famiglie distrutte. Per lui è solo “materiale per il giornale”.
Entro nella mia stanza. Guardo il portatile nello zaino adagiato all’ingresso. Dovrei prenderlo e raggiungere Claudio, ma chiudo la porta alle mie spalle e mi accascio a terra. Sento le lacrime tagliarmi il viso come lame affilate ed il cuore sobbalzare ad ogni singhiozzo, mentre le immagini di questa guerra mi passano davanti agli occhi una dopo l’altra. Le urla e i pianti dei feriti mi raggiungono, mi invadono ed io non posso più proteggermi. Non posso difendermi dai fantasmi che d’improvviso si animano intorno a me, puntano il dito contro di me e mi insultano ricordandomi quanto poco valgo, io che di queste guerre infinite mi sono nutrita come una iena di una carogna. 
Ripenso alla giovane donna ed al suo bambino. Per loro avrebbe dovuto essere una mattina come tante: la preghiera in chiesa e poi la spesa al mercato, dove il bambino avrebbe magari piagnucolato per farsi compare un dolcetto. Ma le cose erano andate diversamente.
Con prepotenza mi torna nella mente il viso di Sandro. Lo immagino che dorme sereno e al sicuro nel suo letto circondato di giochi e sento il cuore dolermi.
Mi risuona nella mente la voce di mia madre, durante il nostro ultimo litigio pochi giorni prima di questa ennesima partenza: "Non ti riconosco più Lara. Sei una delusione enorme."
Ho perso il conto delle volte che ho fatto le valigie, delle volte in cui ho anteposto il lavoro alla mia vita,  incurante di tutto, dei rapporti con gli altri e persino di me stessa. E l’arrivo imprevisto di Sandro non ha cambiato le cose.
Bussano con insistenza alla porta, apro ed è Claudio.
"Che ti prende?" dice. "Ti aspetto da mezz’ora, sbrigati".
Lo guardo con gli occhi arrossati, afferro un foulard ed esco dalla stanza, dirigendomi verso le scale.  
"Ma dove vai?" mi dice alterato. 
Non rispondo e imbocco l’uscita, lasciandolo senza parole.
Intorno a me, il trambusto dei soccorsi. Il mondo sembra diverso adesso. Non ho piu’ il filtro dell’obiettivo a proteggermi, il mio lavoro a definirmi. Sono soltanto una persona come le altre, una donna che cammina con il capo coperto in mezzo a decine di altre donne alla ricerca dei propri cari. Ho bisogno di ritrovare quella ragazza ed il suo bambino. Ho bisogno di sapere se sono vivi. 
Mi faccio faticosamente strada tra la folla fino a raggiungere il punto in cui mi trovavo poche ore prima. Sono fortunata: a breve distanza ritrovo l’uomo che mi aveva strappato dalle mani la macchina fotografica. E’ piu’ calmo adesso ed io trovo le parole per spiegarmi. Nonostante una certa riluttanza mi indica un’abitazione in lontananza. Lo ringrazio e corro in quella direzione. Busso alla porta, un’anziana donna mi apre e vedo la ragazza seduta su un vecchio tappeto. Ha l’abito sporco e lacerato ed il capo fasciato alla meglio. Il bambino è adagiato su di lei. Ha i capelli arruffati ed il viso striato di sangue, ma sorride adesso, esibendo nella manina un giocattolo colorato. Anche la madre sorride riconoscendomi, e mi fa cenno di entrare. 
Restiamo così in silenzio l’una accanto all’altra, mentre l’anziana signora mi offre del the in  tazze di ceramica ormai usurate dal tempo. E in quei minuti, che sembrano ore, ritrovo il lato piu’ umano di questo mestiere, quello che, nelle difficoltà e nelle diversità, ci porta a scoprire linee di comunicazione più intime e profonde. 
E’ arrivato il momento di andare, ho fatto ciò che sentivo di dover fare. 
Poggio la mia mano su quella della ragazza ed accarezzo i capelli scompigliati del suo bambino. Sull’uscio della porta li guardo per un’ultima volta e per un attimo invidio quel loro stare insieme, la capacità ed il coraggio di questa donna di proteggere suo figlio in un paese in guerra e l’istintiva spensieratezza dell’infanzia in grado di vincere la paura ed il dolore.
Torno in albergo e preparo i bagagli, sotto lo sguardo rabbioso di Claudio che mi riempie di domande a cui non rispondo. Non ho voglia di parlare con lui. Afferro lo zaino e nel caos cerco un mezzo con cui raggiungere l’aeroporto. Ci vogliono ore per arrivare. Intorno a me, soldati, posti di blocco, scene quotidiane di un paese in guerra. 
Ma per la prima volta dopo anni, guardo a tutto questo con nuovi occhi, i miei occhi.
E mi sento grata, perchè sono viva e perchè sono in grado di raccontare al mondo questa storia che sa di dolore ma anche di riscoperta. Riscoperta di me stessa e della realtà che mi circonda. Una realtà da cui non posso piu’ prendere le distanze limitandomi a guardarla attraverso la focale di un obiettivo, perchè io stessa ne faccio parte, vi sono immersa e ne sono responsabile. 
Arrivo finalmente a Roma. E’ quasi giunto il tramonto e nuvole rosse infiammano il cielo sopra il Gianicolo. Mi accoglie la fragranza dei platani e quell’odore di antico che contraddistingue la mia città. Respiro a fondo, è primavera ed io mi sento improvvisamente felice: c’è un altro pezzo di mondo, qui, che fa parte di me e di cui non posso piu’ fare a meno.
Apro con le chiavi la porta di casa, il cuore che batte forte.
"Mamma!" sento esclamare dal fondo del corridoio ed un bambino con i riccioli spettinati mi corre incontro.
Lo abbraccio con tutte le mie forze. "Mamma non va più via, te lo prometto." 
Mia madre spunta dal soggiorno.
Mi alzo e la guardo: "Sono tornata" dico, mentre una lacrima scivola sulla guancia.
Mia madre sorride, sa che stavolta sono tornata per davvero.

giovedì 14 aprile 2016

Reportage: Birmania


All rights reserved

Foto: copyright © 2016 Andrea Giuseppe Sanfilippo
Viaggiare oggi attraverso la Birmania significa andare alla scoperta di un paese in cui le tradizioni del passato ed un certo conservatorismo culturale si contrappongono ad una travolgente voglia di crescita e cambiamento, di cui si fa portavoce la fascia più giovane della popolazione.
Accanto alla vita tradizionale delle numerose tribù dislocate nelle aree più o meno remote del paese, dove ancora si cucina sul fuoco vivo e si abita in palafitte di bambù e paglia, c'è un gran fermento nelle scuole, nelle università e nei monasteri dove laici e religiosi portano avanti le proprie istanze d'innovazione.
Non è raro imbattersi in giovani che studiano per diventare educatori, animati dal desiderio di combattere l'abbandono dell'istruzione che per decenni ha afflitto il paese. E non è raro essere fermati per strada da ragazzi, laici o novizi che siano, desiderosi di confrontarsi o di esercitare il proprio inglese.
La nostra giovanissima guida, nello stato di Shan, con grande imbarazzo si scusava dell'ingente quantità di plastica che inquinava le rive dell'Inle Lake e le sue piantagioni di pomodori. "C'è ancora molto da fare nel nostro Paese" osservava con lo sguardo carico di energia e di voglia di migliorare; quella voglia che, purtroppo, cosi spesso manca nei giovani occidentali, talora del tutto indifferenti, talora rassegnati ad una società in caduta libera.
La Birmania, per quanto ancora intimidita da un passato di chiusura e negazione, esprime attraverso i suoi giovani il desiderio di raccontarsi al mondo e di aprirsi ad esso intessendo relazioni a vari livelli.
Come qualsiasi realtà in via di sviluppo, ne vive anche tutte le contraddizioni tanto sul piano economico quanto su quello socio-culturale.
Penso al tempo trascorso a Mandalay, punto di partenza per visitare alcune aree di interesse dell'omonima regione.
Non posso dire che passeggiare tra le strade di Mandalay sia stata un'esperienza del tutto piacevole in considerazione delle bande di cani randagi, del traffico senza regole e della coltre di smog che affaticava la respirazione. Ma ciò mi ha permesso di entrare nel cuore della città e studiarne gli abitanti, cosa che difficilmente sarei riuscita a fare se avessi utilizzato un taxi.
La prima cosa che mi ha colpito a Mandalay (cosi' come in precedenza a Yangon) è stato il traffico: auto, motorini e furgoni che, pur a velocità contenuta, si danno un gran da fare nell'animare la città in un traffico disordinato e incomprensibile. Che si tratti di auto di lusso, di furgoni sgangherati con il motore collocato all'esterno o di motorini anni Ottanta con a bordo famiglie di quattro persone, la regola è una ed una soltanto: suonare costantemente il clacson...per svoltare, per chiedere strada, o soltanto per avvisare un pedone o un altro mezzo del proprio arrivo. Per il resto, appare del tutto normale che il volante sia a destra, che la guida in strada sia parimenti a destra e che il sorpasso possa avvenire indifferentemente a destra o a sinistra. Ed altrettanto normale appare ciò che accade quando i pedoni si accingono ad attraversare: li vedi raccolti in gruppi più o meno corposi che si lanciano in un velocissimo slalom tra le auto nel tentativo di raggiungere incolumi il marciapiede opposto. Impresa peraltro complicata dall'ampiezza delle strade e dalla prassi di non dare precedenza, in nessun caso, alle persone a piedi (che siano anche donne, bambini o anziani).
Se tutto cio' è vero, è altrettanto vero che camminare per le vie delle città birmane trasmette anche un senso di profonda vitalità.  E' un risuonare di canti religiosi e di campanelle, di grida di bambini che giocano per strada e venditori che propongono ai passanti i propri prodotti.
La vendita per strada è peraltro uno degli aspetti tipici che si incontra per le vie delle città.
Decine di bancarelle minuscole affollano i marciapiedi, con su esposte merci di ogni tipo. Ed ancor più numerose sono le attività dedicate allo street-food. Che si tratti di un fornetto, di una pentola accesa su un braciere o di una vera e propria cucina all'aperto contornata di tavolini e sgabelli di plastica colorati, la vendita di cibo rappresenta uno dei business principali.
Ed è, in effetti, difficile resistere al profumo delle frittelle di gamberi e farina di riso o ai cosiddetti dolcetti degli sposi o ai morbidi e fragranti pani appena sfornati.
Che siano le sette del mattino o le dieci di sera ci sarà sempre una signora minuta, con le guance tinte di Thanakha e l'espressione seria, pronta a sfamarti.
La vita di molti Birmani è una vera e propria vita di strada. E' li che tutto si svolge e, qui più che altrove, vale il detto "casa e bottega".
Addossate al muro della stazione di Mandalay, si distendono file di localini dove, al giungere della sera, gli uomini si raccolgono per giocare a Juè, un tradizionale gioco di dadi, o per bere un bicchiere di liquore di palma, mentre negli spazi adiacenti le donne preparano la famiglia per la notte.
Una di esse stende le coperte sulla superficie di una piccola palafitta rialzata, le luci al neon rosse e blu che incorniciano l'immagine di Buddha appesa alla parete, mentre un'anziana signora guarda un programma alla TV.
Poco più in là un uomo nel sacco a pelo gioca con il figlioletto di pochi mesi issandolo in aria con le braccia.
A poca distanza, un gruppo di adolescenti raccolti intorno ad un braciere canta e suona la chitarra mentre in lontananza si sente l'abbaiare di alcuni cani randagi.
Ed è tutto normale. Questo è il loro ritmo di vita.
Sono poveri, poverissimi, ma nessuno ci si avvicina per chiedere soldi; al più, qualcuno incuriosito dalla nostra presenza ci saluta sorridendo.
Peraltro, mi stupisce sempre la reciproca curiosità; ci si osserva come animali di specie diverse, nel tentativo di cogliere cio' che ci accomuna e cio' che ci distingue.
E, più di tutte, mi intenerisce la reazione dei bambini.
Sulle scale di un tempio, ad Inwa, ho incontrato una famiglia con due bambine. La più piccina, quando mi ha vista, mi si è avvicinata con un largo sorriso e l'espressione divertita ed innocente dei suoi quattro anni. Il papà mi ha chiesto, secondo un'abitudine tipicamente orientale, se poteva scattarci una fotografia. Abbiamo fatto la foto, ci siamo scambiati ringraziamenti e saluti e, adesso in giro per l'Oriente, c'è una foto che ritrae me ed una bimba, abbracciata alle mie gambe, senza scarpette e la faccia da monella.
Quello che amo di questo popolo, dalla fattezze minute e delicate, è l'approccio profondamente umile e gentile con cui si pongono nei confronti del mondo, cosi' come mi intenerisce il loro lato estremamente romantico. Sui bus, nei negozi, nei ristoranti riecheggiano sistematicamente le note di canzoni sdolcinate. Che siano cover di canzoni americane o canzoni locali, la regola è una: largo alle emozioni!
Le città Birmane sono smog, spazzatura, case povere e cibo di strada. Eppure al tempo stesso vedi iniziare a spuntare come funghi ristoranti internazionali, abitazioni di lusso nuovissime e circondate di filo spinato. Le ragazze della "Birmania bene" vestono all'Occidentale, abbandonando le infradito per un paio di ballerine, il longyi (una sorta di sarong coloratissimo) per un paio di jeans. Tutte hanno lo smartphone e molte indossano al braccio borse di note marche europee.
Ma se questa è la vita nelle città, basta allontanarsi leggermente da esse per scoprire realtà in cui il tempo sembra scorrere più lentamente, villaggi dove la modernità, pur presente, tende ad affermarsi con maggiore difficoltà.
Penso a villaggi come quello di Inwa a poca distanza da Mandalay o alle tribù tra le montagne dello stato di Shan, regione del famoso Inle Lake.
Per raggiungere le tribu' che vivono tra le montagne occorre affrontare un cammino più o meno lungo attraverso sentieri che si snodano attraversano la giungla secca, una foresta che durante la stagione invernale diventa una distesa di erba gialla che ti copre fin sopra la testa e dove, a fatica, riesci a farti strada.
Quello stesso cammino viene compiuto ogni giorno dalle donne delle tribù per raggiungere i grandi mercati sulle rive del lago. Al mattino presto le puoi veder camminare in fila indiana, ciascuna con il copricapo colorato della propria etnia ed un grosso cesto sulla testa carico di merci da vendere. Molte portano con sé verdure, frutta e cereali; alcune propongono prodotti cucinati nelle proprie abitazioni; altre ancora portano con sé cesti carichi di fiori che saranno poi acquistati e portati dai devoti nei templi.
I mercati sono quanto di più vivace e colorato si possa immaginare. E quando arriva il primo pomeriggio, ciascuna di quelle donne incontrate al mattino ripone le proprie merci nei grossi cesti e ritorna, lungo i sentieri tortuosi, tra le proprie montagne.
Qui la popolazione vive ancora secondo le antiche tradizioni; ed anche se nelle loro case le ragazzine guardano i video musicali su cellulari di ultima generazione, le madri continuano ad indossare i tradizionali copricapo colorati e a tingere le guance con la polvere ottenuta dalla corteccia di thanakha che funge da cosmetico e filtro solare.
Abbiamo avuto la possibilità di visitare una di queste famiglie, di visitare la loro abitazione e spendere del tempo insieme.
Al termine di una ripida salita tra i canneti, si apre finalmente una valle stretta e ci troviamo davanti ad un recinto con degli animali, un orticello ed una palafitta di bambù.
Imitando l'austera padrona di casa che attendeva la nostra visita, togliamo le scarpe e la seguiamo lungo la stretta scala che porta all'interno dell'abitazione, interamente costruita in bambù.
Ci fa accomodare su una stuoia, mentre lei si reca in una stanza separata per preparare il pranzo.
Le sue bimbe ci guardano incuriosite e noi, con altrettanta curiosità, osserviamo l'abitazione in cui siamo stati accolti.
In un angolo della stanza, uno specchio, un catino per l'acqua ed una lastra con un tronchetto di thanakha arredano lo spazio dedicato alla toilette.
Accanto ad esso vediamo un altare dedicato a Buddha con luci al neon e candele, qualche fotografia ed un vecchio televisore. Accatastate in un altro angolo, le stuoie e le coperte per la notte. Soltanto la cucina è separata dal resto della casa ed è qui che le donne cucinano i loro pasti a base di riso, pollo e verdure utilizzando grossi pentoloni collocati su un braciere al centro della stanza.
Entriamo nella piccola cucina e osserviamo la madre intenta nelle sue attività.
Non c'è una lingua comune ed anche il linguaggio del corpo e la gestualità sono differenti.
Eppure riusciamo a capirci e a condividere insieme questo momento, cosi' intimo, immersi in un'atmosfera per noi surreale, quasi come se una macchina del tempo ci avesse permesso di tornare indietro di secoli.
E forse questa è una delle cose più belle del viaggiare: la possibilità di recuperare culture, esperienze ed emozioni che non abbiamo potuto vivere; e forse, più di tutto, la possibilità di imparare qualcosa da chi vive in un mondo ed in un modo diverso dal nostro. Perché di una cosa sono sempre più convinta e cioè che non è il progresso, cosi' come modernamente inteso, a rendere felice i popoli.
Ed è cosi che, ancora una volta, risalgo sul mio aereo e mi chiedo cosa augurare, per il futuro, a questo popolo minuto e gentile che mi ha ospitato con calore nelle scorse settimane.




giovedì 28 gennaio 2016

Viaggiare

(All rights reserved) Tornare da un viaggio, breve o lungo che sia, ti lascia sempre addosso una sensazione particolare.
Provo a riportare la mente agli ultimi viaggi, cercando di ricordare quelle sensazioni che mi hanno accompagnato durante il volo di ritorno. Sensazioni intense ed ogni volta profondamente diverse.

Ripenso alla Patagonia ed al trekking invernale nel Torres del Paine, con le bufere di neve e di grandine. Il silenzio surreale interrotto solo dal soffiare del vento. I picchi solitari tra le nubi.
E mi torna nel cuore quella sensazione di libertà infinita, di contatto profondo con la natura selvaggia, imperiosa, sovrana. E torna, sommessamente, anche il ricordo di quella malinconia che provai, seduta a scrivere nell'aeroporto di Punta Arenas, per quell'avventura appena vissuta e che avrei voluto durasse ancora un po'. Perché solo queste esperienze sono in grado di restituirti quel senso di semplicità e di autenticità di cui la vita di città cerca continuamente di derubarti.

Ripenso all'Oman e alla meravigliosa atmosfera del Medio Oriente. Alla voglia, in aeroporto, di imboccare di nuovo l'uscita e perderci tra i deserti battuti dal vento o tra i vicoli animati dei suq.
Se chiudo gli occhi, ritornano le basse case color sabbia, i forti, le oasi con le palme, il lungomare fiorito di Muscat, gli uomini con i loro abiti bianchi e inamidati, le donne con l'abaya da cui spuntavano lembi di abiti coloratissimi. Posso sentire di nuovo il profumo degli incensi e delle spezie, l'aroma fresco di un'acqua di colonia molto diffusa.
Quell'atmosfera quasi fiabesca ti faceva dimenticare per un attimo i contrasti tra Occidente e Medio Oriente, gli orrori in Siria ed Iraq, gli attentati, il fanatismo religioso, l'ignoranza drammatica di tanti occidentali, la pericolosità della politica di un Salvini o di un Trump.
Ed è cosi che mentre l'aereo si staccava da terra, con il cuore gonfio di emozioni per i ricordi di un viaggio indimenticabile, sentivo farsi parimenti strada l'amarezza per l'incapacità dell'uomo contemporaneo di mettere a frutto gli insegnamenti che avrebbe dovuto trarre da secoli di storia attraversati dalla guerra e dall'odio.
Perché tutto ciò che avrei voluto in quel momento e che vorrei tutt'ora è che il mondo riuscisse a cogliere la perfezione insita nelle differenze culturali ed il valore positivo e costruttivo del rispetto reciproco.

E poi c'è l'Africa con le sue contraddizioni. Ci vuole coraggio e molta onestà intellettuale nel valutare la propria esperienza di viaggio attraverso sette stati africani segnati dalla fame, dalla povertà e dalla discriminazione.
Ricordo bene lo scalo a Johannesburg durante il viaggio di ritorno, dove ci hanno accolto le luci scintillanti di un aeroporto che non aveva niente da invidiare all'Europa, con i suoi brand di lusso e le catene di fast food.
Una parte di me si sentiva 'in salvo' dopo i lunghi viaggi a bordo di bus sgangherati, le strade sterrate, le infrastrutture fatiscenti, la febbre alta. Ma un'altra parte di me si sentiva a disagio, quasi fosse d'improvviso un pesce fuor d'acqua e provasse vergogna per i propri pensieri. Le luci scintillanti quasi mi accecavano, i brand di lusso mi infastidivano ancora più del solito, per non parlare dei turisti chiassosi di ritorno dal loro 'pacchetto tutto incluso', che avrei desiderato sparissero assieme alle loro chiacchiere inutili su un precoce (quanto fasullo) 'mal d'africa'.
La mente non poteva fare a meno di oscillare tra il luogo in cui mi trovavo e quelli che avevo visitato nelle settimane precedenti, tra la vita che vivo nella mia comoda casa europea e quella degli uomini e delle donne che abitano i villaggi poverissimi e vivaci dello Zambia o i villaggi sconsolati e pieni di degrado del Mozambico. Mentre camminavo verso il mio gate cercavo un senso, cercavo di sanare dentro di me le contraddizioni del mondo e cercavo altresì di risolvere quel senso di colpa che si faceva strada ogni volta che pensavo 'per fortuna sto tornando a casa'.

Ed infine la Birmania, con la sua ingenuità e la voglia di futuro. Strana la sensazione nel lasciare questo paese, così diverso da ciò cui siamo abituati. Particolare nel suo genere anche rispetto all'Africa. Durante il viaggio di rientro, quando sono atterrata all'aeroporto di Doha, con i suoi bagni completamente automatizzati, le squadre di operai in guanti e mascherine a lucidare ogni angolo dell'immensa struttura e gli uomini con i loro abiti bianchi impeccabili, istintivamente ho pensato: 'bentornata a casa!'. Se pensi di essere tornata a casa quando ti trovi in un paese ad ancora innumerevoli ore di volo dall'Europa, beh allora vuol dire che hai visitato una terra davvero distante da te. Non solo geograficamente, ma anche culturalmente ed emotivamente.
La Birmania è tradizione radicata e corsa al futuro nello stesso tempo. E' spensieratezza ma anche voglia di riscatto dopo un passato difficile.
La Birmania esprime il tempo della transizione e del cambiamento ed è questa la sensazione che ti comunica e ti lascia addosso quando, seduta in aeroporto, attendi il tuo aereo verso quella che - correttamente o meno - ti ritrovi a chiamare 'modernità'.

Viaggi. Ognuno con le sue peculiarità. Ognuno con le sue contraddizioni. Viaggi durati troppo o troppo poco. In ogni caso, esperienze che hanno lasciato una traccia profonda, avendo avviato ciascuno a modo suo un percorso nella tua vita.
La Patagonia ha suggellato definitivamente l'amore per l'avventura e la natura selvaggia, l'Oman mi ha fatto scoprire la passione per il Medio Oriente ed il profondo rispetto per l'Islam. L'Africa mi ha portato a confrontarmi con gli aspetti più dolorosi del mondo e mi ha spinta a perseverare nella lotta contro le ingiustizie. La Birmania mi ha riportato indietro nel tempo e mi ha fatto scoprire una cultura ancora radicata a tradizioni antiche, con i suoi villaggi di palafitte e i pasti cucinati sul fuoco vivo.
E, soprattutto, al termine di ogni viaggio sento che un nuovo tassello si è aggiunto nella conoscenza del mondo e, per riflesso, anche di me stessa.

giovedì 1 ottobre 2015

Racconto breve: Asad e Rafiq, storie dall'Africa

All rights reserved
Foto: copyright © 2015 Andrea Giuseppe Sanfilippo

Asad sedeva all'ombra di un grande albero da cui osservava in lontananza il piccolo autobus bianco che si avvicinava lasciando dietro di sé una lunga scia polverosa. 
La strada sterrata che attraversava il villaggio, dividendolo in due ali di capanne e botteghe, si animava di urla e colori ogni volta che uno di quei bus si fermava arrestando per qualche minuto la sua corsa attraverso il Paese. 
Donne e ragazzini raccoglievano le loro merci e si accalcavano intorno al veicolo, sgomitando e scavalcandosi l’un con l’altro, cercando di avere la meglio nel vivace mercanteggiare con i viaggiatori. 
Pannocchie di tenero grano abbrustolito, frutta, verdura, bevande e persino vassoi con spiedini di carne. Ciascuno offriva ciò che il proprio orto o il proprio allevamento produceva. 
Dal canto loro i viaggiatori si sporgevano dai finestrini allungando le mani a testare la qualità dei prodotti offerti nelle grandi ceste che le donne portavano sul capo o nei vassoi spinti verso l’alto dai ragazzini.
Pochi minuti e l’autobus ripartiva, spesso lasciando scontenti tanto i compratori quanto i venditori; gli uni per non essere riusciti a spuntare un prezzo più basso, gli altri per non essere riusciti a concludere una vendita in più. Tanto velocemente quanto era comparso, altrettanto velocemente il bus spariva dalla vista, lasciando in una nuvola di polvere i venditori e le loro ceste, mentre la vita nel villaggio riprendeva il suo tran tran.
Asad si teneva lontano dalla confusione del centro, preferendo piuttosto il silenzio della natura. 
Con il solo arco sulle spalle ed una bisaccia in vita, si avviava lungo la strada sterrata che tagliava in due la savana, mentre le voci ed i rumori delle case e delle botteghe si affievolivano nella distanza sino a scomparire del tutto. 
Ad una decina di chilometri dal villaggio la strada cominciava a costeggiare lo Zambesi, con il suo letto ampio e le acque lente. Un ponte di tronchi vecchio e malandato permetteva di passare sull’altra sponda. Da lì un sentiero si inoltrava nella savana dall’erba alta e gialla. 
Asad non aveva timore. Benché avesse soltanto quattordici anni, aveva imparato a riconoscere ogni rumore ed ogni campanello d’allarme, come il verso dell’uccello sentinella che avvisava gli animali della savana della presenza di un pericolo. 
Non vi era impronta che non sapesse identificare, né odori o versi che non sapesse ricondurre all’animale giusto. Sapeva quando fermarsi, nascondersi, arretrare. 
E sapeva anche quando scoccare una delle sue preziose frecce. 
Asad non si separava mai dal suo arco, una delle poche cose che gli restava della vita passata. Il padre lo aveva costruito in occasione del suo decimo compleanno, l’ultimo che Asad aveva trascorso con la famiglia. 
Quell’anno, infatti, una grave epidemia di colera aveva colpito il distretto decimandone gli abitanti ed Asad era l’unico sopravvissuto della sua numerosa famiglia. 
Il padre era stato l’ultimo a lasciarlo, gettandolo nello sgomento e nella disperazione. Per tre giorni il bambino non aveva lasciato la capanna. Non aveva mangiato né dormito, vegliando instancabilmente le spoglia del padre, quasi questi potesse d’improvviso risvegliarsi. Soltanto al mattino del quarto giorno qualcuno si accorse di lui. 
Kainda, la giovane sorella della madre di Asad, insospettita dalla prolungata assenza di visite da parte di quest’ultima, aveva deciso di recarsi nel villaggio. 
Con il cuore che le batteva forte, si inoltrò tra le capanne sino a giungere alla casa di Asad. Il cortile era vuoto. Non c’era il profumo dei panni stesi ad asciugare al sole, nessuno era seduto ad intrecciare bambù all’ombra della grande buganvillea rossa, né si udivano gli strilli giocosi dei bambini. 
Kainda si fermò ad un passo dalla porta della capanna, con il più macabro dei presentimenti. Si fece coraggio e spinse con la mano la porta di paglia intrecciata, mentre i bracciali di metallo colorato le tintinnavano al polso. 
Un odore acre le colpì le narici costringendola a coprire il naso con un lembo dell’abito. La porta aperta fece filtrare un raggio di luce che investì la sagoma di Asad, seduto a terra, le spalle appoggiate alla parete, lo sguardo fisso e inespressivo sul padre che giaceva grigio e immobile. 
Kainda lanciò un urlo e scappò all’esterno. 
Un uomo che passava poco distante accorse richiamato dalle urla della giovane. La ragazza non ebbe neanche la forza di parlare ed indicò all’uomo l’abitazione. Quest’ultimo entro’ riconoscendo subito l’ennesima casa e l’ennesima famiglia colpite dal colera. Udi’ il respiro flebile di Asad e vide i suoi occhi asciutti guizzare nella penombra. 
“C’è un bambino vivo qui dentro!” urlo’ l’uomo.
Kainda si precipito’ all’interno dell’abitazione e raccolse tra le braccia il corpicino magro e stanco del nipote. 
“Oh Asad, è un miracolo che tu sia salvo. Avrò cura io di te” disse tra le lacrime, mentre lo sguardo vagava nella casa senza vita.
Passarono i mesi e mentre il corpo di Asad recuperava forze ed energie, non poteva dirsi altrettanto per la sua giovane mente chiusa nel dolore. Era sempre stato timido ed introverso, ma il suo sguardo e le sue parole avevano rivelato sin da piccolo una grande vitalità e sagacia. Quello stesso sguardo sembrava adesso sbiadito, confuso, perso dietro pensieri inespressi.
Trascorsero gli anni e Kainda continuò a prendersi cura di lui pur consapevole che non sarebbe mai riuscita a curarne le ferite. Soltanto gli insegnamenti e le lunghe passeggiate nella savana con il saggio del villaggio sembravano riaccendere una scintilla di vita in quegli occhi tristi. E fu grazie a quelle giornate trascorse nel bush che Asad, giorno dopo giorno, silenziosamente, imparo’ a conoscere la savana e i suoi segreti.
Era da poco passato il giorno del suo quattordicesimo compleanno quando, percorrendo il ponte di tronchi che l’avrebbe portato al di là del fiume, sentì voci concitate provenire dal bush. Si fermò per un momento, incerto. Non riusciva a distinguere le parole, ma era evidente che vi fossero diverse persone. Quando udì un flebile barrito provenire dalla medesima direzione istintivamente cominciò a correre finché non si trovò davanti un cucciolo di elefante che giaceva ferito mentre due uomini in divisa parlavano con tono agitato al cellulare. C’era anche il vecchio saggio del villaggio seduto a terra accanto al cucciolo  e intento a valutarne le ferite. Poco più in là il corpo di un grosso elefante insanguinato.
Il vecchio vide arrivare Asad e alzò lo sguardo verso di lui: “I bracconieri” disse grave. “E’ la prima volta dopo tanti anni che tornano in questa zona. Pensavamo di essere riusciti a sconfiggerli, ma ci siamo sbagliati” aggiunse scuotendo il capo con rabbia.
Nonostante le lunghe passeggiate nel bush, era la prima volta che Asad vedeva un cucciolo di elefante ferito e, soprattutto, era la prima volta che vedeva un animale ferito dai bracconieri.
Sentì il viso avvampare ed un moto di rabbia avvinghiargli lo stomaco, mentre le dita si serravano strette intorno all’impugnatura del suo arco.
Il vecchio si alzò in piedi e disse: “Stavo perlustrando la zona quando ho sentito questo cucciolo lamentarsi disperato. E’ stato ferito gravemente al dorso e alle zampe, probabilmente mentre si accanivano sulla madre. Per fortuna nel villaggio c’erano due volontari del centro di recupero per elefanti e sono corso a chiamarli. Ricordi Asad? Una volta te ne ho parlato.”
Asad ricordò che il vecchio gli aveva raccontato che in Zambia, come in altri paesi dell’Africa, c’erano dei centri che si occupavano del soccorso e del recupero di elefanti ed altri animali della savana feriti o rimasti orfani a causa del bracconaggio o dell’attacco dei predatori.  Si inginocchiò accanto al cucciolo , la cui storia gli ricordava in qualche modo la sua e fu pervaso da un’ondata di tenerezza ed empatia. Non avrebbe mai voluto che nessuno, uomo o animale che fosse, potesse provare il dolore che lui stesso aveva provato.
Il cucciolo aveva bisogno di ricevere al più presto cure mediche, ma il centro era distante alcune miglia da quell’area e, in attesa dell’arrivo dell’elicottero, avrebbero dovuto  fare il possibile per tenerlo in vita. 
Asad avrebbe fatto di tutto pur di salvare quel cucciolo e restituirlo alla vita. Aiutò gli operatori a lavare e disinfettare le ferite e lo accarezzò lungamente cercando di tranquillizzarlo.
La sua reazione non passò inosservata ai due operatori del centro, che si scambiarono una rapida occhiata. Avevano imparato a riconoscere subito, tra i giovani del posto, chi aveva le qualità per diventare uno di loro. Ed anche al vecchio saggio non era sfuggita la luce nello sguardo di Asad. Forse la comunanza di esperienze aveva fatto scattare una reazione nella sua mente e nel suo cuore.
Stava calando ormai la sera quando l’elicottero arrivò. Ne scesero altri operatori del centro portando con sé il materiale necessario per soccorrere l’animale.
Asad si fece di lato per non intralciare le operazioni, ma il suo sguardo attento e preoccupato seguiva i soccorritori mentre bloccavano delicatamente le zampe del cucciolo con dei nastri di garza per evitare che agitandosi scalciasse, e poi mentre lo collocavano su un resistente telo verde e lo caricavano faticosamente sull’elicottero. Erano pronti, potevano partire.
Ad Asad batteva forte il cuore, avrebbe voluto andare con loro. Non voleva lasciare l’elefante, voleva sapere se sarebbe guarito, se ce l’avrebbe fatta. Baraki, quasi gli avesse letto nella mente, ricevuto un cenno di assenso dal suo superiore, rivolse lo sguardo al ragazzino e disse senza esitazione “Se il vecchio è d’accordo puoi venire con noi.” 
Asad guardò il vecchio che annuì dicendo “Vai, ragazzo. Avvertirò io Kainda. Inviaci tue notizie quando sarai lì.”
Il ragazzino sorrise. Un sorriso breve, solo abbozzato, appena intuibile. Ma il vecchio lo colse e vi colse la possibilità per il giovane di iniziare una nuova vita.
Asad salì sull’elicottero che si alzò velocemente in volo. Baraki coprì il cucciolo d’elefante con una coperta, mentre un uomo in camice azzurro gli praticava una flebo.
“Come sta?” chiese Asad con apprensione.
L’uomo con il camice lo guardò con un’espressione preoccupata: “E’ molto debole. Ha perso parecchio sangue ed è disidratato. Inoltre è molto piccolo, credo non abbia più di sei mesi. A quest’età, la separazione dalla madre può essergli fatale quanto le ferite che gli hanno inferto.”
Baraki aggiunse: “Gli elefanti sono animali intelligenti e sensibili e se restano soli possono soffrire al punto da lasciarsi morire; e questo vale soprattutto per i cuccioli separati dalle madri.”
Asad chiese: “Voi cosa potete fare per loro?”
Baraki rispose: “Sai, nel centro oltre a curarli, cerchiamo di dargli una famiglia. Ciascuno di noi si occupa di più cuccioli per i quali facciamo, in un certo senso, le veci della madre. Hanno bisogno di essere seguiti come fossero dei bambini. Non puoi immaginare quanto dolore possa provare un cucciolo di elefante rimasto orfano. Proprio come un essere umano.”
Asad, sempre così riservato, quasi non si accorse delle parole che gli uscirono di bocca: “Invece lo so; ho perso la mia famiglia durante un’epidemia quando avevo dieci anni. Se sono vivo e’ solo grazie a mia  zia Kainda.” 
“Mi spiace ragazzo...”
Asad scrollo’ le spalle e accarezzo’ la testa del cucciolo.
“Ami molto la savana Asad?”
“In questi anni il vecchio saggio mi ha insegnato molto sulla natura e gli animali. La savana è l’unico posto in cui  mi sento bene.”
Durante il resto del viaggio rimasero in silenzio; il cucciolo ogni tanto emetteva qualche lamento leggero nel sonno. 
Era ormai buio quando raggiunsero il centro di ricovero. Il direttore, un robusto uomo di mezz’età dal forte accento inglese, si informò sulle condizioni dell’animale e diede subito disposizioni perché venisse trasportato nella nursery. 
Il suo sguardo cadde poi su Asad. “E tu chi sei?” chiese.
“Io sono Asad” rispose il ragazzino intimidito.
Baraki scese in quel momento dall’elicottero e cogliendo l’imbarazzo di quest’ultimo, disse: “Ci ha  aiutato molto  nel recupero dell’animale e abbiamo pensato di fargli vedere come funziona il centro.”
Il direttore annuì intuendo che i suoi ragazzi avessero visto nel giovane le qualità adatte per diventare un membro della squadra.
Il cucciolo venne portato nella nursery, seguito da Asad e Baraki. 
Il direttore era dietro di loro. “Baraki, ancora un caso di bracconaggio?”
“Sì direttore, è il quinto soltanto in questo mese, ma è il primo in quella zona. A quanto pare il  Governo ha tagliato i fondi ai rangers e non c’è sufficiente controllo.”
Il direttore scosse il capo grevemente; poi, rivolto ad Asad, che camminava guardandosi attorno incuriosito ed ancora un po’ a disagio, disse: “Grazie a questo centro, giovanotto, vengono salvate molte vite. Il problema però è riuscire a vincere la battaglia più grande: sconfiggere una volta per tutte i bracconieri. Ma finché l’avorio verrà utilizzato nei traffici illeciti, finché continuerà ad alimentare la ricchezza  di guerriglieri e  commercianti, non abbiamo alcuna speranza.”
Baraki proseguì il discorso del direttore: “In molti paesi i guerriglieri fanno strage di elefanti e uccidono chiunque cerchi di fermarli. E poi qui, come in Mozambico o in Tanzania, il bracconaggio è diventato per molti uomini l’unico modo per racimolare soldi per sfamare le proprie famiglie.” 
Baraki parlava in modo concitato. Asad percepiva la rabbia del volontario del centro. Anche lui doveva essere piuttosto giovane, forse non avrà avuto più di una ventina d’anni, ma sembrava molto più maturo della sua età. Niente di strano in una terra difficile come la loro.
Nel frattempo giunsero nella nursery, un capannone di legno e paglia suddiviso in recinti; in uno di essi Asad vide un giovane con il camice azzurro seduto accanto ad un elefante molto piccolo, la flebo attaccata al corpicino che si sollevava ad ogni respiro. 
Il direttore vi si avvicino’: “Come sta?” chiese a bassa voce.
L’operatore, mostrando un viso stanco e preoccupato, rispose: “Anche oggi non ha voluto prendere latte. Stiamo continuando a farle delle flebo. Se continua così non so per quanto riusciremo a tenerla in vita”.
“Che cosa le è successo?” chiese Asad guardando il cucciolo.
“Alcuni giorni fa ci hanno chiamato da un parco nel Nord del Paese. I locali avevano trovato questa cucciola vagare disperata. Non sono riusciti a trovare la madre e non sappiamo cosa sia successo. E’ stato difficile riuscire a calmarla e anche adesso continua a rifiutare il latte. Ieri abbiamo anche provato ad avvicinarla ad una femmina adulta, ma non è servito a niente. Domani ritenteremo. E’ fondamentale che trovi nuovi punti di riferimento” rispose l’uomo.
“E’ importante che i piccoli socializzino tra di loro;  spesso è la terapia migliore. E poi quando  riescono a creare un legame speciale con un elefante più adulto,  superano più facilmente il trauma della separazione dalla madre. E tutto questo è essenziale anche in vista del loro reinserimento in natura” aggiunse il direttore.
Asad spostò lo sguardo dal cucciolo al volontario che l’accudiva. L’emozione nella sua voce, mentre parlava dell’animale di cui si stava occupando, l’aveva colpito. 
Baraki, leggendogli nel pensiero, disse: “Sai, è incredibile il legame che si può creare tra un volontario del centro ed un elefante. Lo segui dal momento in cui viene salvato fino a quando non diventa abbastanza grande e autonomo da poterlo riportare nel bush. Ed anche, dopo, credimi quel rapporto resta per sempre!”
“Il vecchio del villaggio mi ha raccontato che gli elefanti riescono a riconoscere un umano anche  dopo molti anni” disse Asad.
“E’ vero” confermo’ Baraki sorridendo. Poi aggiunse “E adesso andiamo a vedere come sta il nostro amico”.
I tre proseguirono verso il recinto del nuovo arrivato. Asad cominciò a sentirsi impaziente. Aveva paura di quello che i veterinari avrebbero detto. Accanto al piccolo c’erano due uomini che gli stavano somministrando dei farmaci. Il più anziano dei due disse: “Ha un po’ di febbre, ma sono certo che si riprenderà!”
Il direttore e Baraki annuirono soddisfatti. Anche Asad sospirò sollevato, pensando a  quella piccola vita cui si sentiva sorprendentemente quanto inaspettatamente legato. Avrebbe voluto trascorrere la notte accanto al cucciolo, quasi temesse che se l’avesse lasciato non l’avrebbe piu’ ritrovato. 
Tuttavia il direttore era di diverso avviso.“Bene ragazzi, lasciamo che i veterinari facciano il loro lavoro. Noi adesso non possiamo fare molto. Asad puoi dormire nella stanza di Baraki stanotte.”
I due ragazzi uscirono dal capannone ed il direttore rimase a guardarli mentre sparivano nella notte, illuminata solo dalla luna piena e dalle rare luci ancora accese nella grossa tenuta. Dio solo sapeva di quanto il centro avesse bisogno di giovani. Erano trascorsi dieci anni da quando lui e la moglie avevano lasciato il Sudafrica per fondare il centro in Zambia. Lui veterinario, lei sociologa avevano deciso di investire i risparmi di una vita per assistere gli animali rimasti vittima, diretta o indiretta, del bracconaggio. Era stato molto difficile superare le ostilità dei locali e le difficoltà burocratiche ma, infine, il centro aveva visto la luce e negli anni era divenuto un vero e proprio punto di riferimento sul territorio. Non solo in quei dieci anni aveva salvato centinaia di vite, ma aveva  dato lavoro a tanti giovani strappandoli alla povertà. Non tutti erano in grado di far parte di quella organizzazione: soltanto i più volenterosi e quelli che per naturale inclinazione riuscivano a vivere in simbiosi con la savana restavano nel centro di recupero. Il direttore sperò in cuor suo che Asad fosse uno di quei giovani. 
Nel frattempo il ragazzino aveva raggiunto con Baraki l’edificio destinato agli operatori del centro. Mentre si sistemavano per la notte notte Asad gli chiese: “Da quanto tempo sei qui, Baraki?”
“Da circa cinque anni” rispose il ragazzo. “Io non ho famiglia. Fino a quindici anni ho vissuto in un orfanotrofio di Lusaka, poi ho conosciuto il direttore che mi ha parlato del centro e della possibilita’ di lavorare per lui. E così sono venuto qui. Non avevo mai vissuto nella savana e quando sono arrivato ogni giorno è stato una scoperta. Fino a quel momento avevo sempre avuto un senso di vuoto, ma qui è cambiato tutto. So che il mio aiuto è importante e che la mia presenza è fondamentale per i cuccioli che mi affidano, perché da me dipende il loro futuro.”
Asad lo ascoltava in silenzio. Per lui la savana era stata tutto nella sua giovane vita. Era l’unico luogo in cui si sentiva vivo. Tacque per qualche istante, poi disse a bassa voce: “Secondo te potrebbe esserci posto anche per me?”
Baraki sorrise. “Oggi quando abbiamo visto il modo con cui hai partecipato ai soccorsi, abbiamo capito subito che avresti potuto far parte del nostro gruppo. Per questo ti abbiamo chiesto di venire. Sai, tanti di noi sono arrivati qui quasi per caso. Qualcuno è andato via, qualcuno è rimasto. E’ un lavoro faticoso. Meraviglioso, certo, ma richiede anche tanto sacrificio. Pensi di potercela fare?” 
“Io…” esitò per un brevissimo istante. “Io voglio provare”.
“Bene, allora domani ne parlerò con il direttore.”
Baraki spense la debole lampada che illuminava la stanza e i due giovani caddero in un sonno profondo cullati dai rumori della savana.
All’alba Asad fu svegliato dalla voce di Baraki. Ebbe bisogno di qualche secondo per realizzare dove fosse. Poi gli tornarono alla mente le immagini ed i discorsi del giorno precedente e fu pervaso da una duplice sensazione: aveva desiderio di lanciarsi in questa nuova vita, ma al tempo stesso si sentiva disorientato. Doveva ammettere a se stesso che aveva timore di questo cambiamento che l’avrebbe portato a confrontarsi con qualcosa di nuovo, con nuove persone e nuove situazioni; un’esperienza complessa per lui così chiuso ed introverso.
“Ho parlato con il direttore, Asad. Questo pomeriggio vuole incontrarti. Adesso però voglio mostrarti come si svolgono le nostre giornate. Per prima cosa andremo a trovare il cucciolo che abbiamo salvato ieri. Immagino sarai impaziente di sapere come sta”.
Asad annuì. Si vestì velocemente e, insieme, uscirono dall’edificio diretti verso la nursery. Al suo interno alcuni operatori erano intenti a dare il latte ai cuccioli con grossi biberon di plastica. Altri ne controllavano le condizioni di salute. 
I due giovani raggiunsero il recinto del nuovo arrivato. Il veterinario del giorno precedente lo stava visitando. Li vide arrivare e sorrise “Questo piccolo sta dimostrando di avere grinta. Sta decisamente meglio rispetto a ieri. Mi preoccupa soltanto che non voglia mangiare. E’ agitato e appena ci avviciniamo con il biberon ci spinge via con la proboscide”.
“Asad, perchè non provi tu?” propose Baraki. 
Asad era intimidito dal sentirsi al centro dell’attenzione, ma si avvicinò al cucciolo e lo carezzò perché si tranquillizzasse e riconoscesse il suo odore. Soltanto quando parve più calmo, prese il biberon e provò ad avvicinarglielo. Il cucciolo apparve per qualche istante ancora diffidente e poi bevve avidamente.
Baraki ed il veterinario sorrisero soddisfatti e quest’ultimo disse: “A quanto pare questo cucciolo ha trovato in te il suo punto di riferimento!”
Fu quello uno dei primi sorrisi che la nuova vita dipinse sul volto di Asad.  
“Sarai tu a prendertene cura?” chiese il veterinario rivolto al ragazzino.
Baraki rispose per lui: “Sì, certamente. Questo sarà il suo primo incarico nel periodo di apprendistato!”
“Allora benvenuto tra noi ragazzino! Ti aspetta un compito importante!” esclamò l’uomo.
Asad avvampò per l’imbarazzo e la gioia. 
Baraki disse a sua volta: “Sono certo che questo cucciolo sarà in buone mani! Piuttosto, non ha ancora un nome, Asad. Vuoi sceglierlo tu?”
“Rafiq” propose Asad, per il suo significato. Il nome scelto, infatti, significava ‘Amico’ e non era forse quello che stavano diventando?
Dopo la visita al cucciolo, Baraki e Asad trascorsero l’intera mattina nella savana. Baraki voleva capire quale fosse il grado di conoscenza dell’ambiente da parte di Asad ed al termine dell’escursione rimase molto colpito dalle competenze del ragazzo.
Nel pomeriggio, invece, Asad andò a parlare con il direttore e con lui si accordo’ sulle condizioni per il periodo di apprendistato. Asad chiese che una quota del salario andasse a sua zia Kainda, affinchè potesse ringraziarla dei sacrifici sostenuti negli anni. 
Nei giorni successivi Asad cominciò a prendersi cura del piccolo Rafiq, aiutando il veterinario e Baraki. Il piccolo riprese velocemente le forze ma per molti giorni continuò ad essere fortemente agitato. Solo la presenza del ragazzino sembrava calmarlo.  
Per lungo tempo Rafiq rifuggì anche il contatto con i suoi simili, cuccioli o adulti che fossero. Soltanto con tanta dedizione e pazienza, Asad riuscì ad aiutare il piccolo ad integrarsi con gli altri elefanti del centro. 
E man mano che il tempo passava anche il legame tra di loro si rafforzava.
E così trascorsero, una dopo l’altra, le settimane fino a diventare mesi e poi anni.
Asad crebbe ed anche Rafiq divenne grande e forte.
Il direttore e gli altri operatori del centro erano molto soddisfatti del lavoro svolto dal giovane ed erano molto colpiti dalla passione e dalla dedizione straordinaria che vi profondeva. Ed Asad era a sua volta soddisfatto della propria vita. Nel centro aveva trovato nuovi amici, una nuova famiglia. Aveva trovato il proprio posto nel mondo. 
Ed aveva altresì trovato un compagno di viaggio davvero speciale. 
Il ragazzino ed il cucciolo d’elefante avevano condiviso il difficile passaggio all’età adulta ed insieme erano riusciti a trovare la voglia e la forza di reagire alle avversità. Insieme avevano condiviso avventure, giochi, lunghe passeggiate nella savana. 
Non vi era giorno, infatti, in cui non spendessero delle ore insieme camminando fianco a fianco nell’erba fitta, in un silenzio carico di emozioni, quasi avessero imparato a comunicare tra di loro anche senza parole. 
Quando Rafiq si fermava a mangiare o a bere nello stagno, Asad sedeva sotto un albero e restava lì, immerso nel silenzio della natura, come tanti anni prima, ma senza più quel senso di terribile solitudine che gli faceva da sottofondo. L’incontro con Rafiq aveva definitivamente cambiato qualcosa dentro di lui, restituendogli fiducia e calore.
Asad però sapeva che ben presto sarebbe arrivato il giorno in cui il suo vecchio amico avrebbe dovuto prendere la propria strada e sapeva che sarebbe stato un momento difficile per entrambi.
Quando il direttore annunciò l’avvio del programma di reinserimento in natura, Rafiq cominciò a trascorrere sempre più tempo nella savana con la sola compagnia del gruppo di elefanti con cui era cresciuto. 
Per quanto graduale, il distacco non fu facile da gestire né per Asad né per l’animale. Per Rafiq, infatti, la presenza di Asad era divenuta una costante e ci volle del tempo perché si abituasse alla nuova famiglia fatta solo di animali, così come ad Asad sembrava strano non condividere più la maggior parte del tempo con il suo amico.
Arrivò infine il giorno in cui il gruppo di Rafiq avrebbe solcato il cancello dell’orfanotrofio per l’ultima volta. 
Asad era ancora disteso nel letto, mentre un leggero chiarore preannunciava l’imminente arrivo dell’alba. Gli occhi dolenti per l’insonnia seguivano la danza lenta di un’ombra sulla parete. Baraki dormiva ancora profondamente e, nel silenzio della stanza, Asad credeva di sentire il battito incessante del proprio cuore, quasi potesse balzargli fuori dal petto da un momento all’altro.
Non si sentiva pronto per quel momento che aveva provato tante volte a rinviare. Ma era chiaro che  pronto non lo sarebbe stato mai. 
Rafiq non era stato soltanto l’elefante di cui si era preso cura per tanti anni. Era stato l’amico silenzioso con cui aveva condiviso la propria solitudine e i propri pensieri. Era l’amico con cui era riuscito a sconfiggere il dolore ed affrontare di nuovo la vita con il sorriso. Come avrebbe potuto lasciarlo andare? Come avrebbe potuto affrontare adesso quelle giornate senza di lui?
Scacciò via quei pensieri, dandosi dell’egoista e rammentando ancora una volta a se stesso che restituire Rafiq alla natura avrebbe significato restituirlo alla sua vera vita, quella di cui i bracconieri avevano cercato di privarlo. Per quanto rassicuranti, le mura ed i cancelli dell’orfanotrofio costituivano una barriera tra il mondo dell’uomo e quello degli animali, un ostacolo al normale dispiegarsi delle vite di quei giovani elefanti. 
Ma da quel giorno Rafiq sarebbe stato libero.
Asad e gli altri operatori si incontrarono come ogni mattino all’ingresso del capannone di legno e paglia. Radunarono i giovani e vigorosi elefanti e li guidarono verso la savana. L’area prescelta era abbastanza vicina al centro così che gli operatori potessero continuare a monitorarli ed intervenire in caso di bisogno.
Il momento era arrivato. Asad era agitato ed anche Rafiq appariva inquieto, avendo compreso che qualcosa stava cambiando.
Il ragazzo gli si avvicinò e, abbracciandolo, sussurrò “Amico mio, il nostro cammino insieme finisce qui. Insieme siamo cresciuti e siamo diventati forti; adesso dobbiamo imparare a camminare da soli, ma resteremo inseparabili in questa terra e sotto questo cielo che continueremo a condividere.” 
Rafiq appoggiò la proboscide sulla sua spalla quasi volesse ricambiare l’abbraccio.
“Adesso dobbiamo andare Asad”, disse Baraki a voce bassa.
Nella luce rosa e ambra del tramonto Asad guardò il suo amico allontanarsi lentamente nella savana insieme agli altri elefanti.
“Te l’ho detto Asad, il rapporto che si instaura tra un uomo ed un elefante dura per sempre. Sopravvive al tempo e alla distanza” disse Baraki.
Asad sorrise e si avvio’ con gli altri ragazzi verso l’orfanotrofio.
I due cuccioli, cresciuti insieme curando reciprocamente le ferite che la vita aveva loro inferto, erano pronti ad affrontare il mondo e le sue nuove sfide, forti di ciò che erano diventati e con la consapevolezza che ciascuno dei due avrebbe portato dentro di sé un pezzo dell’altro.

mercoledì 29 aprile 2015

Racconto breve: Le tele di Giulia

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Le note di una vecchia canzone napoletana riecheggiavano soffuse nella sala ormai vuota, una musica d’altri tempi che si mescolava al vento leggero che agitava le tende di seta portando con sé il profumo delicato della notte. Anche gli ultimi ospiti avevano lasciato l’elegante palazzo di Santa Lucia. 
Giulia appoggiò le braccia nude sul marmo fresco della grande finestra che dava sul golfo addormentato, soltanto il chiarore delle stelle e delle lontane lampare dei pescatori ad illuminare la distesa d’acqua che si muoveva pigra. La giovane respirò a fondo l’aria densa di salsedine e, lasciandosi cullare dalle note di sottofondo, chiuse gli occhi. 
Era stata una delle rare volte in cui Giulia, incoraggiata dal maestro, aveva esposto i propri dipinti e non si aspettava tanto successo tra gli invitati. Era riuscita a vendere anche alcune tele, anche se ad un prezzo molto inferiore al loro valore. 
Per lei, così timida e schiva, era stata una battaglia prima di tutto interiore decidere di presentare al pubblico le proprie opere; e come se non bastasse aveva dovuto combattere a lungo con il padre che, pur avendo egli stesso promosso nella figlia l’amore per la cultura in ogni sua forma, non aveva mai accettato l’idea che la ragazza amasse la pittura al punto da voler rivolgere ad essa ogni sforzo. Il padre, nella vana speranza di disincentivare la tendenza artistica della giovane, era giunto persino a negarle i fondi per l’Accademia e per l’acquisto dei materiali necessari per la pittura. 
Giulia, tuttavia, non si era mai data per vinta e, anche grazie all’aiuto della sorella maggiore, era riuscita ad avere sempre a disposizione grandi tele da far vivere con il tocco di tempere ed oli. 
E così non era raro incontrarla sulle scale della Chiesa di Sant’Antonio intenta a tratteggiare sagome di alberi e nuvole, a tradurre in colore attraverso pennellate brevi e decise il profumo dei fiori o il moto armonioso delle onde del mare; così come non era raro riconoscere il suo cappotto verde tra i vicoli dei quartieri spagnoli, assorta nel trasporre sulla sua tela il dolore e, allo stesso tempo, la sorprendente vitalità di quel mondo a sé, stretto tra il lungomare e la collina del Vomero. 
Il dipingere non era, per Giulia, un esercizio di sterile riproduzione del mondo né un disperato tentativo introspettivo. Per lei la pittura rappresentava uno strumento di ricerca e cattura di un segnale di ottimismo in un’epoca alla deriva. E questo era quel che si poteva cogliere negli accesi contrasti di colore che sapevano di vita e di morte, nelle pennellate incisive che sfumavano in tocchi di colore leggero racchiuso in forme quasi impalpabili.
Eppure, non era solo la sua timidezza e la ferma opposizione del padre ad ostacolare il percorso artistico della giovane. Giulia si trovava a combattere contro una società in caduta libera, in cui l’arte si svuotava di contenuto e diventava, nel migliore dei casi, eccesso di sperimentazione e, nel peggiore, sterile e volgare provocazione. 
Allo stesso tempo Giulia si trovava a fare i conti, insieme alle compagne dell’Accademia, con un anacronistico ma resistentissimo scetticismo verso la pittura femminile, che chiudeva loro le porte delle manifestazioni più rilevanti. Condividendo un’esperienza comune a molte altre donne, la giovane si confrontava difatti con le difficoltà che nascevano da una netta prevalenza maschile nel mondo della pittura, un mondo dove soltanto gli uomini sembravano degni di reale credibilità, quasi che lo svolgimento professionale dell’arte pittorica potesse essere considerato quale loro esclusivo appannaggio.
Sulla scia di queste riflessioni, i suoi pensieri andarono ad una pittrice, nata a Venezia nella prima metà dell’Ottocento e napoletana d’adozione per i lunghi anni ivi trascorsi. Elda Genovesi era la donna e pittrice che, attraversando quasi un secolo di storia e di vita, aveva celebrato l’universo femminile nelle sue molte forme e che, con il suo approccio grintoso e vitale, aveva vinto la propria battaglia riuscendo a vivere d’arte in un ambiente ed in un’epoca per tanti aspetti ancora ostili. In un mondo dominato dal conservatorismo culturale dell’Accademia da un lato e dal vuoto perbenismo della nobiltà dall’altro, la Genovesi aveva rappresentato una rara quanto pregevole eccezione. E a lei si era sempre ispirata Giulia nei momenti di maggiore sconforto. 
La giovane era assorta in questi pensieri quando, d’improvviso, avvertì la brezza trasformarsi in un brivido leggero sulle spalle nude, mentre lenta si levava una voce femminile ad accompagnare, quasi in un sussurro, le note che dall’impianto stereo si liberavano nell’aria. 
Giulia si guardò attorno, ma non vi era nessuno accanto a lei nella stanza, né alcuno degli ospiti sembrava essersi trattenuto nel cortile. Sporse leggermente il busto fuori dalla finestra, spingendo lo sguardo nelle anse meno illuminate del giardino. 
In un angolo, sulla panca sotto la grande magnolia, scorse una donna dai lineamenti non più giovani che, avvolta in un abito azzurro, le sorrideva. Giulia la guardò incuriosita, cogliendo in quel volto sembianze familiari. 
La donna, con un cenno della mano, invitò la giovane a raggiungerla in giardino. Giulia non ebbe esitazione, scese veloce le scale e, quando si ritrovò dinanzi alla donna, non ebbe dubbi: si trattava proprio della Genovesi. 
«Vieni, siedi accanto a me!» la esortò quest’ultima con voce allegra.
Giulia la guardò incredula, ma accolse l’invito e prese posto accanto a lei.
La Genovesi volse lo sguardo verso Giulia ed esclamò sorridendo: «I tuoi quadri sono piaciuti!»
Con una spontaneità che non le sarebbe appartenuta in altre circostanze e senza alcun timore, Giulia rispose: «E’ vero e questo mi rende felice».
«Ma c’è qualcosa che ti turba, vero?» chiese la donna.
«La pittura fa parte del mio modo di essere, contribuisce a definirmi e avrei difficoltà ad immaginare una vita senza tele e colori. Ma mi addolora la percezione che non ci sia davvero spazio per l’arte, almeno non secondo il mio modo di intenderla» rispose Giulia malinconica. 
La giovane si fermò un istante come a raccogliere i pensieri, riprendendo poi con maggior vigore: «Viviamo nella celebrazione dell’inutile, in un mondo in cui chiunque reclama per sé il titolo di artista, circondato da una platea acerba o ignorante che avvalora la legittimità di questa pretesa! E forse ciò che mi addolora di più è la battaglia che ci ritroviamo a combattere quotidianamente contro una società che diventa sempre più meschina e violenta; una società che arriva a ripudiare e distruggere l’arte ogni volta in cui sia portatrice di valori non condivisi. Così come mi sembra pura follia che le donne, certo in Oriente più che qui, debbano ancora accontentarsi di un ruolo secondario in qualcosa che è l’espressione di sé e della propria visione del mondo, come qualsiasi altra arte!»
La Genovesi sospirò: «Giulia, quella grettezza che oggi ti scandalizza è sempre esistita: rivendicare come arte ciò     che non lo è; distruggere ciò che non si capisce o condivide; disprezzare o ignorare ciò che non fa parte della propria tradizione e dei propri costumi sociali; o ancora, tentare di fermare il tempo ed il progresso culturale. Tutto questo fa parte dell’uomo e della sua chiusura mentale. Ed è questa chiusura, la difficoltà di aprirsi al nuovo e al diverso ad aver ostacolato anche la    pittura femminile. Quel che oggi accade in Cina o in Afganistan è quello che, sia pure in forme diverse, hanno vissuto le pittrici in Europa nei secoli scorsi. Ti parlo di tempi in cui le Accademie erano precluse alle donne ed in cui la pittura femminile era considerata soltanto un aspetto dell’educazione o un semplice passatempo.»
«Certo, ma a che punto siamo davvero arrivati oggi? Anche se nei musei, nelle sovrintendenze e in genere nel mondo dell’arte, molte donne riescono a farsi strada con successo, ho la sensazione che una reale parità non esista ancora! D’altra parte, la necessità di parlare continuamente di parità non significa forse ammetterne l’inesistenza?»
«Lo so come ti senti mia cara e, credimi, la tua frustrazione è comune a tutti coloro che hanno il talento e la sensibilità di comprendere cosa sia l’arte. Prova a guardare indietro, Giulia. Pensi che la vita sia stata facile per me? Pensi che lo sia stata per la Gentileschi o la Frai o per Suzanne Valadon, giusto per fare qualche esempio? Per tutte noi portare avanti la nostra passione ha implicato sacrifici. 
Ha significato fare i conti con una critica che ci ha sempre relegato nel dilettantismo, anche quando riteneva che i nostri quadri avessero spessore artistico. E pensa anche a tutte le pittrici che sono riuscite a guadagnare un piccolo spazio di fama soltanto vivendo della luce riflessa di mariti ben più noti.» 
Giulia tacque per qualche istante, poi disse con tristezza: «Ho sempre cercato di non arrendermi e di andare avanti per la mia strada, ma a volte ho la sensazione che sia impossibile far sentire davvero la mia voce.»   
«Dammi la mano» disse la Genovesi, alzandosi in piedi.  
«Voglio mostrarti qualcosa.» 
Giulia guardò la mano tesa verso di lei e, con un pizzico di esitazione, la strinse nella propria. D’improvviso il giardino, il palazzo e le lampare dei pescatori scomparvero lasciando spazio ad un tempo e ad un luogo diversi. 
Giulia riconobbe l’ampia sala del Gambrinus, con i suoi lampadari luccicanti, i tavoli tondi con le sedie rivestite di seta rossa, le statue e i dipinti ad arricchire le pareti. Poteva avvertire anche l’intenso aroma del caffè ed il profumo fragrante delle sfogliate alla crema.
In una sala scorse dei cavalletti su cui riconobbe alcuni tra i più celebri dipinti della Genovesi. Uomini e donne, elegantemente vestiti, si muovevano tra di essi, chiacchierando e sorridendo. 
Una grande tela, addossata ad una delle pareti della sala, attirò la sua attenzione. Non l’aveva mai vista, né esposta nei musei né proposta nei libri d’arte. Ritraeva una scena di battaglia: in un villaggio di campagna, uomini armati si lanciavano l’uno contro l’altro in uno scontro acceso, mentre una nuvola di polvere si sollevava nell’aria, mescolandosi alle nuvole basse che oscuravano il sole che tentava di far capolino dietro alle colline. In primo piano, due bambini stretti accucciati al suolo, stretti in un abbraccio terrorizzato, gli occhi serrati e le mani a proteggere le orecchie dalle grida e dagli spari. 
Giulia rimase colpita da quel paesaggio e da quei volti dall’espressione cosi intensa da sembrare reali. La giovane si sentì rapita, le sembrava di poter sentire l’odore intenso di polvere penetrare nelle narici, di udire le urla soffocate dei soldati che cadevano al suolo insanguinati. Poteva percepire il terrore impresso sul volto dei bambini; avrebbe quasi voluto allungare una mano e strapparli via da quella scena, portandoli al sicuro. 
Una voce la riportò alla realtà. Accanto al quadro, una Genovesi ancora giovane descriveva ad un piccolo gruppo di persone le ragioni che l’avevano portata a dipingere quella scena. La pittrice, ragazzina, si era ritrovata ad assistere impotente ad una cruenta battaglia durante le guerre d’indipendenza, che l’aveva segnata in profondità. 
Il pubblico esprimeva compiaciuto il proprio apprezzamento per la tensione emotiva del quadro, per l’espressività dei volti e per l’eccellente uso dei colori, quando un uomo, con monocolo e fazzoletto rosso nel taschino, si avvicinò alla grande tela, esclamando con aria sprezzante: «Quanti commenti lusinghieri! E’ facile credersi grandi artisti quando a giudicare le proprie opere è un pubblico compiacente o che ignora la vera arte!» 
Nella sala calò un silenzio carico di imbarazzo. L’uomo era un celebre critico d’arte, noto per i commenti sfrontati, ruvidi e per l’acceso maschilismo. Elda non reagì e l’uomo ne approfittò per proseguire nel proprio attacco: «Cosa crede signorina? Che sia sufficiente l’uso di colori scuri per riflettere la tragedia della guerra? E le sembra forse che in questo quadro ci sia armonia nelle proporzioni e nelle forme? E’ evidente mia cara, che lei non ha alcuna attitudine nel dipingere grandi tele. D’altronde è noto che soltanto i grandi possano cimentarsi in simili imprese. In fin dei conti, quante donne hanno osato approcciarsi a lavori di questo tipo? Ascolti il mio consiglio, faccia come tutte le altre signore: si dedichi alle miniature, alle nature morte e lasci la pittura storica a chi è in grado di confrontarsi con questi temi e con tele di simili dimensioni. Il rischio, diversamente, è quello di scadere nella mediocrità. E la pittura non ha bisogno di mediocrità» disse sottolineando le ultime parole con un sorriso tagliente. 
Elda abbassò lo sguardo, il viso arrossato dalla vergogna e dalla rabbia. Avrebbe   voluto gridargli di andarsene, di lasciare quella sala dove non aveva alcun diritto di entrare vomitando insulti e cattiverie. Un uomo che non era in grado di guardare oltre la punta del proprio naso e che doveva la propria posizione alla protezione   della famiglia reale e al conservatorismo che ancora resisteva nella società di quegli anni. Una società in cui la donna era relegata all’ambiente domestico dove le era concesso dipingere scene ritenute ad essa consone, la maternità, i giochi tra bambini, momenti della vita quotidiana.
Ma serrò stretti i pugni e tacque, consapevole che se avesse tentato di difendere i propri quadri e la propria dignità contro gli insulti di quell’uomo, avrebbe sortito l’effetto opposto, vanificando del tutto la possibilità di accedere ai più rinomati salotti del regno.
La piccola folla che la circondava si disperse nella sala in un silenzio imbarazzato, lasciando la giovane Elda sola e con il cuore in pezzi. 
In quel momento Giulia si ritrovò catapultata in un nuovo luogo. Si trovava in una stanza scura, con il tipico odore pungente della trementina. Da una porta giungeva una luce soffusa; la giovane vi si avvicinò e vide Elda singhiozzare. Appoggiata alla parete c’era la grande tela che aveva visto al Gambrinus. 
Vide Elda afferrare un punteruolo e distruggere ciò che con quelle stesse mani aveva creato, accasciandosi poi al suolo in un pianto disperato. Giulia provò un intenso dolore a quella vista, quasi potesse sentire dentro di sé il senso di sconfitta e la frustrazione profonda della pittrice. 
Si sentì nuovamente stringere la mano e la stanza scura satura di trementina lasciò spazio al profumo della notte, con il suo odore di gelsomini e di mare. Giulia sedeva di nuovo sulla panca del proprio giardino, accanto alla Genovesi sul cui volto era comparso un triste sorriso. 
«Come vedi Giulia, anche io ho dovuto combattere contro una società in cui esprimere la propria voce, specialmente quando si trattava di una donna, era davvero difficile. Ma questo non ha mai impedito, né a me né a tanti altri, di continuare a credere nell’importanza dell’arte, quella vera, quella non banale, quella che non si lascia lusingare dalla celebrità effimera o dal potere politico» osservò Elda.
«Quel che dici è vero. Ma a volte temo che la società stia sprofondando in un abisso senza fondo. Come posso comunicare qualcosa a qualcuno che non vuol vedere e sentire altro rispetto a ciò che vive e comprende? Come posso partecipare al processo di cambiamento di un mondo che in realtà non vuol cambiare?».
«Giulia, è proprio nei periodi come questo, in cui la società sembra perdere la propria identità e la propria direzione, che il lavoro di denuncia, ed allo stesso tempo di ricerca e di studio, dell’artista, uomo o donna che sia, diventa ancora più fondamentale. Adesso ti sembra di rimanere inascoltata, ma non è così. Tutto ciò di cui, attraverso la tua arte, dai ogni giorno testimonianza, contribuisce a ricostruire la coscienza sociale» rispose Elda. Ed aggiunse con maggior dolcezza: «E questo avviene anche se tu non te ne rendi conto. Giulia, cara, lo so che è difficoltoso farsi strada ed è altresì difficoltoso riuscire a sostenersi economicamente, ma se credi davvero nell’arte e nella sua funzione sociale, varrà la pena di sacrificare qualcosa della tua vita, giacché la ricchezza viene dalla consapevolezza che ciò che crei sarà eterno e che, con il tuo contributo, riuscirai a rendere forse migliore questo mondo. Ma questa è una scelta: nessuno esclude che tu possa voler scivolare nell’indifferenza, diventando cieca e sorda davanti alla realtà, o lasciando che le tue tele si impolverino rinchiuse tra le mura dello studio.»
Giulia si alzò dalla panchina e fece qualche passo verso la magnolia, i cui grandi fiori bianchi emanavano il loro caratteristico profumo dolce e penetrante. Non aveva sempre amato quel fiore per il suo significato? Non era la magnolia il simbolo della perseveranza? Quello che portava tatuato finanche sulla caviglia, come pro-memoria per i momenti in cui si sentiva sopraffatta dalle difficoltà. Accarezzò il tronco dell’albero.
«Sì Giulia, devi continuare a perseverare» disse Elda quasi le leggesse nel pensiero, «Tu come tutti gli scrittori, i musicisti e gli altri artisti - quelli, come dici tu, degni di questo nome - che vivono quest’epoca difficile. Rinunciare all’arte significherebbe rinunciare a se stessi ed al proprio ruolo nella società.» 
La Genovesi si alzò a sua volta dalla panchina. «Servirà tanto coraggio Giulia e so che tu ne hai!» e rivolgendo alla giovane un ultimo sorriso, si voltò scivolando lentamente nella notte. 
Le note della canzone d’improvviso cessarono.
Giulia si guardò attorno. Era sola. 
Era stato solo un sogno ad occhi aperti?
Guardò il fiore di magnolia che aveva tra le mani.
Non aveva importanza.
Le sue tele l’aspettavano. I suoi oli e le sue tempere avrebbero colorato la notte. 
Quella notte e tutte quelle che sarebbero venute.
Perché il mondo potesse, un giorno, essere irradiato di luce nuova.