"The impossible exists only until we find a way to make it possible" Mike Horn

giovedì 1 ottobre 2015

Racconto breve: Asad e Rafiq, storie dall'Africa

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Foto: copyright © 2015 Andrea Giuseppe Sanfilippo

Asad sedeva all'ombra di un grande albero da cui osservava in lontananza il piccolo autobus bianco che si avvicinava lasciando dietro di sé una lunga scia polverosa. 
La strada sterrata che attraversava il villaggio, dividendolo in due ali di capanne e botteghe, si animava di urla e colori ogni volta che uno di quei bus si fermava arrestando per qualche minuto la sua corsa attraverso il Paese. 
Donne e ragazzini raccoglievano le loro merci e si accalcavano intorno al veicolo, sgomitando e scavalcandosi l’un con l’altro, cercando di avere la meglio nel vivace mercanteggiare con i viaggiatori. 
Pannocchie di tenero grano abbrustolito, frutta, verdura, bevande e persino vassoi con spiedini di carne. Ciascuno offriva ciò che il proprio orto o il proprio allevamento produceva. 
Dal canto loro i viaggiatori si sporgevano dai finestrini allungando le mani a testare la qualità dei prodotti offerti nelle grandi ceste che le donne portavano sul capo o nei vassoi spinti verso l’alto dai ragazzini.
Pochi minuti e l’autobus ripartiva, spesso lasciando scontenti tanto i compratori quanto i venditori; gli uni per non essere riusciti a spuntare un prezzo più basso, gli altri per non essere riusciti a concludere una vendita in più. Tanto velocemente quanto era comparso, altrettanto velocemente il bus spariva dalla vista, lasciando in una nuvola di polvere i venditori e le loro ceste, mentre la vita nel villaggio riprendeva il suo tran tran.
Asad si teneva lontano dalla confusione del centro, preferendo piuttosto il silenzio della natura. 
Con il solo arco sulle spalle ed una bisaccia in vita, si avviava lungo la strada sterrata che tagliava in due la savana, mentre le voci ed i rumori delle case e delle botteghe si affievolivano nella distanza sino a scomparire del tutto. 
Ad una decina di chilometri dal villaggio la strada cominciava a costeggiare lo Zambesi, con il suo letto ampio e le acque lente. Un ponte di tronchi vecchio e malandato permetteva di passare sull’altra sponda. Da lì un sentiero si inoltrava nella savana dall’erba alta e gialla. 
Asad non aveva timore. Benché avesse soltanto quattordici anni, aveva imparato a riconoscere ogni rumore ed ogni campanello d’allarme, come il verso dell’uccello sentinella che avvisava gli animali della savana della presenza di un pericolo. 
Non vi era impronta che non sapesse identificare, né odori o versi che non sapesse ricondurre all’animale giusto. Sapeva quando fermarsi, nascondersi, arretrare. 
E sapeva anche quando scoccare una delle sue preziose frecce. 
Asad non si separava mai dal suo arco, una delle poche cose che gli restava della vita passata. Il padre lo aveva costruito in occasione del suo decimo compleanno, l’ultimo che Asad aveva trascorso con la famiglia. 
Quell’anno, infatti, una grave epidemia di colera aveva colpito il distretto decimandone gli abitanti ed Asad era l’unico sopravvissuto della sua numerosa famiglia. 
Il padre era stato l’ultimo a lasciarlo, gettandolo nello sgomento e nella disperazione. Per tre giorni il bambino non aveva lasciato la capanna. Non aveva mangiato né dormito, vegliando instancabilmente le spoglia del padre, quasi questi potesse d’improvviso risvegliarsi. Soltanto al mattino del quarto giorno qualcuno si accorse di lui. 
Kainda, la giovane sorella della madre di Asad, insospettita dalla prolungata assenza di visite da parte di quest’ultima, aveva deciso di recarsi nel villaggio. 
Con il cuore che le batteva forte, si inoltrò tra le capanne sino a giungere alla casa di Asad. Il cortile era vuoto. Non c’era il profumo dei panni stesi ad asciugare al sole, nessuno era seduto ad intrecciare bambù all’ombra della grande buganvillea rossa, né si udivano gli strilli giocosi dei bambini. 
Kainda si fermò ad un passo dalla porta della capanna, con il più macabro dei presentimenti. Si fece coraggio e spinse con la mano la porta di paglia intrecciata, mentre i bracciali di metallo colorato le tintinnavano al polso. 
Un odore acre le colpì le narici costringendola a coprire il naso con un lembo dell’abito. La porta aperta fece filtrare un raggio di luce che investì la sagoma di Asad, seduto a terra, le spalle appoggiate alla parete, lo sguardo fisso e inespressivo sul padre che giaceva grigio e immobile. 
Kainda lanciò un urlo e scappò all’esterno. 
Un uomo che passava poco distante accorse richiamato dalle urla della giovane. La ragazza non ebbe neanche la forza di parlare ed indicò all’uomo l’abitazione. Quest’ultimo entro’ riconoscendo subito l’ennesima casa e l’ennesima famiglia colpite dal colera. Udi’ il respiro flebile di Asad e vide i suoi occhi asciutti guizzare nella penombra. 
“C’è un bambino vivo qui dentro!” urlo’ l’uomo.
Kainda si precipito’ all’interno dell’abitazione e raccolse tra le braccia il corpicino magro e stanco del nipote. 
“Oh Asad, è un miracolo che tu sia salvo. Avrò cura io di te” disse tra le lacrime, mentre lo sguardo vagava nella casa senza vita.
Passarono i mesi e mentre il corpo di Asad recuperava forze ed energie, non poteva dirsi altrettanto per la sua giovane mente chiusa nel dolore. Era sempre stato timido ed introverso, ma il suo sguardo e le sue parole avevano rivelato sin da piccolo una grande vitalità e sagacia. Quello stesso sguardo sembrava adesso sbiadito, confuso, perso dietro pensieri inespressi.
Trascorsero gli anni e Kainda continuò a prendersi cura di lui pur consapevole che non sarebbe mai riuscita a curarne le ferite. Soltanto gli insegnamenti e le lunghe passeggiate nella savana con il saggio del villaggio sembravano riaccendere una scintilla di vita in quegli occhi tristi. E fu grazie a quelle giornate trascorse nel bush che Asad, giorno dopo giorno, silenziosamente, imparo’ a conoscere la savana e i suoi segreti.
Era da poco passato il giorno del suo quattordicesimo compleanno quando, percorrendo il ponte di tronchi che l’avrebbe portato al di là del fiume, sentì voci concitate provenire dal bush. Si fermò per un momento, incerto. Non riusciva a distinguere le parole, ma era evidente che vi fossero diverse persone. Quando udì un flebile barrito provenire dalla medesima direzione istintivamente cominciò a correre finché non si trovò davanti un cucciolo di elefante che giaceva ferito mentre due uomini in divisa parlavano con tono agitato al cellulare. C’era anche il vecchio saggio del villaggio seduto a terra accanto al cucciolo  e intento a valutarne le ferite. Poco più in là il corpo di un grosso elefante insanguinato.
Il vecchio vide arrivare Asad e alzò lo sguardo verso di lui: “I bracconieri” disse grave. “E’ la prima volta dopo tanti anni che tornano in questa zona. Pensavamo di essere riusciti a sconfiggerli, ma ci siamo sbagliati” aggiunse scuotendo il capo con rabbia.
Nonostante le lunghe passeggiate nel bush, era la prima volta che Asad vedeva un cucciolo di elefante ferito e, soprattutto, era la prima volta che vedeva un animale ferito dai bracconieri.
Sentì il viso avvampare ed un moto di rabbia avvinghiargli lo stomaco, mentre le dita si serravano strette intorno all’impugnatura del suo arco.
Il vecchio si alzò in piedi e disse: “Stavo perlustrando la zona quando ho sentito questo cucciolo lamentarsi disperato. E’ stato ferito gravemente al dorso e alle zampe, probabilmente mentre si accanivano sulla madre. Per fortuna nel villaggio c’erano due volontari del centro di recupero per elefanti e sono corso a chiamarli. Ricordi Asad? Una volta te ne ho parlato.”
Asad ricordò che il vecchio gli aveva raccontato che in Zambia, come in altri paesi dell’Africa, c’erano dei centri che si occupavano del soccorso e del recupero di elefanti ed altri animali della savana feriti o rimasti orfani a causa del bracconaggio o dell’attacco dei predatori.  Si inginocchiò accanto al cucciolo , la cui storia gli ricordava in qualche modo la sua e fu pervaso da un’ondata di tenerezza ed empatia. Non avrebbe mai voluto che nessuno, uomo o animale che fosse, potesse provare il dolore che lui stesso aveva provato.
Il cucciolo aveva bisogno di ricevere al più presto cure mediche, ma il centro era distante alcune miglia da quell’area e, in attesa dell’arrivo dell’elicottero, avrebbero dovuto  fare il possibile per tenerlo in vita. 
Asad avrebbe fatto di tutto pur di salvare quel cucciolo e restituirlo alla vita. Aiutò gli operatori a lavare e disinfettare le ferite e lo accarezzò lungamente cercando di tranquillizzarlo.
La sua reazione non passò inosservata ai due operatori del centro, che si scambiarono una rapida occhiata. Avevano imparato a riconoscere subito, tra i giovani del posto, chi aveva le qualità per diventare uno di loro. Ed anche al vecchio saggio non era sfuggita la luce nello sguardo di Asad. Forse la comunanza di esperienze aveva fatto scattare una reazione nella sua mente e nel suo cuore.
Stava calando ormai la sera quando l’elicottero arrivò. Ne scesero altri operatori del centro portando con sé il materiale necessario per soccorrere l’animale.
Asad si fece di lato per non intralciare le operazioni, ma il suo sguardo attento e preoccupato seguiva i soccorritori mentre bloccavano delicatamente le zampe del cucciolo con dei nastri di garza per evitare che agitandosi scalciasse, e poi mentre lo collocavano su un resistente telo verde e lo caricavano faticosamente sull’elicottero. Erano pronti, potevano partire.
Ad Asad batteva forte il cuore, avrebbe voluto andare con loro. Non voleva lasciare l’elefante, voleva sapere se sarebbe guarito, se ce l’avrebbe fatta. Baraki, quasi gli avesse letto nella mente, ricevuto un cenno di assenso dal suo superiore, rivolse lo sguardo al ragazzino e disse senza esitazione “Se il vecchio è d’accordo puoi venire con noi.” 
Asad guardò il vecchio che annuì dicendo “Vai, ragazzo. Avvertirò io Kainda. Inviaci tue notizie quando sarai lì.”
Il ragazzino sorrise. Un sorriso breve, solo abbozzato, appena intuibile. Ma il vecchio lo colse e vi colse la possibilità per il giovane di iniziare una nuova vita.
Asad salì sull’elicottero che si alzò velocemente in volo. Baraki coprì il cucciolo d’elefante con una coperta, mentre un uomo in camice azzurro gli praticava una flebo.
“Come sta?” chiese Asad con apprensione.
L’uomo con il camice lo guardò con un’espressione preoccupata: “E’ molto debole. Ha perso parecchio sangue ed è disidratato. Inoltre è molto piccolo, credo non abbia più di sei mesi. A quest’età, la separazione dalla madre può essergli fatale quanto le ferite che gli hanno inferto.”
Baraki aggiunse: “Gli elefanti sono animali intelligenti e sensibili e se restano soli possono soffrire al punto da lasciarsi morire; e questo vale soprattutto per i cuccioli separati dalle madri.”
Asad chiese: “Voi cosa potete fare per loro?”
Baraki rispose: “Sai, nel centro oltre a curarli, cerchiamo di dargli una famiglia. Ciascuno di noi si occupa di più cuccioli per i quali facciamo, in un certo senso, le veci della madre. Hanno bisogno di essere seguiti come fossero dei bambini. Non puoi immaginare quanto dolore possa provare un cucciolo di elefante rimasto orfano. Proprio come un essere umano.”
Asad, sempre così riservato, quasi non si accorse delle parole che gli uscirono di bocca: “Invece lo so; ho perso la mia famiglia durante un’epidemia quando avevo dieci anni. Se sono vivo e’ solo grazie a mia  zia Kainda.” 
“Mi spiace ragazzo...”
Asad scrollo’ le spalle e accarezzo’ la testa del cucciolo.
“Ami molto la savana Asad?”
“In questi anni il vecchio saggio mi ha insegnato molto sulla natura e gli animali. La savana è l’unico posto in cui  mi sento bene.”
Durante il resto del viaggio rimasero in silenzio; il cucciolo ogni tanto emetteva qualche lamento leggero nel sonno. 
Era ormai buio quando raggiunsero il centro di ricovero. Il direttore, un robusto uomo di mezz’età dal forte accento inglese, si informò sulle condizioni dell’animale e diede subito disposizioni perché venisse trasportato nella nursery. 
Il suo sguardo cadde poi su Asad. “E tu chi sei?” chiese.
“Io sono Asad” rispose il ragazzino intimidito.
Baraki scese in quel momento dall’elicottero e cogliendo l’imbarazzo di quest’ultimo, disse: “Ci ha  aiutato molto  nel recupero dell’animale e abbiamo pensato di fargli vedere come funziona il centro.”
Il direttore annuì intuendo che i suoi ragazzi avessero visto nel giovane le qualità adatte per diventare un membro della squadra.
Il cucciolo venne portato nella nursery, seguito da Asad e Baraki. 
Il direttore era dietro di loro. “Baraki, ancora un caso di bracconaggio?”
“Sì direttore, è il quinto soltanto in questo mese, ma è il primo in quella zona. A quanto pare il  Governo ha tagliato i fondi ai rangers e non c’è sufficiente controllo.”
Il direttore scosse il capo grevemente; poi, rivolto ad Asad, che camminava guardandosi attorno incuriosito ed ancora un po’ a disagio, disse: “Grazie a questo centro, giovanotto, vengono salvate molte vite. Il problema però è riuscire a vincere la battaglia più grande: sconfiggere una volta per tutte i bracconieri. Ma finché l’avorio verrà utilizzato nei traffici illeciti, finché continuerà ad alimentare la ricchezza  di guerriglieri e  commercianti, non abbiamo alcuna speranza.”
Baraki proseguì il discorso del direttore: “In molti paesi i guerriglieri fanno strage di elefanti e uccidono chiunque cerchi di fermarli. E poi qui, come in Mozambico o in Tanzania, il bracconaggio è diventato per molti uomini l’unico modo per racimolare soldi per sfamare le proprie famiglie.” 
Baraki parlava in modo concitato. Asad percepiva la rabbia del volontario del centro. Anche lui doveva essere piuttosto giovane, forse non avrà avuto più di una ventina d’anni, ma sembrava molto più maturo della sua età. Niente di strano in una terra difficile come la loro.
Nel frattempo giunsero nella nursery, un capannone di legno e paglia suddiviso in recinti; in uno di essi Asad vide un giovane con il camice azzurro seduto accanto ad un elefante molto piccolo, la flebo attaccata al corpicino che si sollevava ad ogni respiro. 
Il direttore vi si avvicino’: “Come sta?” chiese a bassa voce.
L’operatore, mostrando un viso stanco e preoccupato, rispose: “Anche oggi non ha voluto prendere latte. Stiamo continuando a farle delle flebo. Se continua così non so per quanto riusciremo a tenerla in vita”.
“Che cosa le è successo?” chiese Asad guardando il cucciolo.
“Alcuni giorni fa ci hanno chiamato da un parco nel Nord del Paese. I locali avevano trovato questa cucciola vagare disperata. Non sono riusciti a trovare la madre e non sappiamo cosa sia successo. E’ stato difficile riuscire a calmarla e anche adesso continua a rifiutare il latte. Ieri abbiamo anche provato ad avvicinarla ad una femmina adulta, ma non è servito a niente. Domani ritenteremo. E’ fondamentale che trovi nuovi punti di riferimento” rispose l’uomo.
“E’ importante che i piccoli socializzino tra di loro;  spesso è la terapia migliore. E poi quando  riescono a creare un legame speciale con un elefante più adulto,  superano più facilmente il trauma della separazione dalla madre. E tutto questo è essenziale anche in vista del loro reinserimento in natura” aggiunse il direttore.
Asad spostò lo sguardo dal cucciolo al volontario che l’accudiva. L’emozione nella sua voce, mentre parlava dell’animale di cui si stava occupando, l’aveva colpito. 
Baraki, leggendogli nel pensiero, disse: “Sai, è incredibile il legame che si può creare tra un volontario del centro ed un elefante. Lo segui dal momento in cui viene salvato fino a quando non diventa abbastanza grande e autonomo da poterlo riportare nel bush. Ed anche, dopo, credimi quel rapporto resta per sempre!”
“Il vecchio del villaggio mi ha raccontato che gli elefanti riescono a riconoscere un umano anche  dopo molti anni” disse Asad.
“E’ vero” confermo’ Baraki sorridendo. Poi aggiunse “E adesso andiamo a vedere come sta il nostro amico”.
I tre proseguirono verso il recinto del nuovo arrivato. Asad cominciò a sentirsi impaziente. Aveva paura di quello che i veterinari avrebbero detto. Accanto al piccolo c’erano due uomini che gli stavano somministrando dei farmaci. Il più anziano dei due disse: “Ha un po’ di febbre, ma sono certo che si riprenderà!”
Il direttore e Baraki annuirono soddisfatti. Anche Asad sospirò sollevato, pensando a  quella piccola vita cui si sentiva sorprendentemente quanto inaspettatamente legato. Avrebbe voluto trascorrere la notte accanto al cucciolo, quasi temesse che se l’avesse lasciato non l’avrebbe piu’ ritrovato. 
Tuttavia il direttore era di diverso avviso.“Bene ragazzi, lasciamo che i veterinari facciano il loro lavoro. Noi adesso non possiamo fare molto. Asad puoi dormire nella stanza di Baraki stanotte.”
I due ragazzi uscirono dal capannone ed il direttore rimase a guardarli mentre sparivano nella notte, illuminata solo dalla luna piena e dalle rare luci ancora accese nella grossa tenuta. Dio solo sapeva di quanto il centro avesse bisogno di giovani. Erano trascorsi dieci anni da quando lui e la moglie avevano lasciato il Sudafrica per fondare il centro in Zambia. Lui veterinario, lei sociologa avevano deciso di investire i risparmi di una vita per assistere gli animali rimasti vittima, diretta o indiretta, del bracconaggio. Era stato molto difficile superare le ostilità dei locali e le difficoltà burocratiche ma, infine, il centro aveva visto la luce e negli anni era divenuto un vero e proprio punto di riferimento sul territorio. Non solo in quei dieci anni aveva salvato centinaia di vite, ma aveva  dato lavoro a tanti giovani strappandoli alla povertà. Non tutti erano in grado di far parte di quella organizzazione: soltanto i più volenterosi e quelli che per naturale inclinazione riuscivano a vivere in simbiosi con la savana restavano nel centro di recupero. Il direttore sperò in cuor suo che Asad fosse uno di quei giovani. 
Nel frattempo il ragazzino aveva raggiunto con Baraki l’edificio destinato agli operatori del centro. Mentre si sistemavano per la notte notte Asad gli chiese: “Da quanto tempo sei qui, Baraki?”
“Da circa cinque anni” rispose il ragazzo. “Io non ho famiglia. Fino a quindici anni ho vissuto in un orfanotrofio di Lusaka, poi ho conosciuto il direttore che mi ha parlato del centro e della possibilita’ di lavorare per lui. E così sono venuto qui. Non avevo mai vissuto nella savana e quando sono arrivato ogni giorno è stato una scoperta. Fino a quel momento avevo sempre avuto un senso di vuoto, ma qui è cambiato tutto. So che il mio aiuto è importante e che la mia presenza è fondamentale per i cuccioli che mi affidano, perché da me dipende il loro futuro.”
Asad lo ascoltava in silenzio. Per lui la savana era stata tutto nella sua giovane vita. Era l’unico luogo in cui si sentiva vivo. Tacque per qualche istante, poi disse a bassa voce: “Secondo te potrebbe esserci posto anche per me?”
Baraki sorrise. “Oggi quando abbiamo visto il modo con cui hai partecipato ai soccorsi, abbiamo capito subito che avresti potuto far parte del nostro gruppo. Per questo ti abbiamo chiesto di venire. Sai, tanti di noi sono arrivati qui quasi per caso. Qualcuno è andato via, qualcuno è rimasto. E’ un lavoro faticoso. Meraviglioso, certo, ma richiede anche tanto sacrificio. Pensi di potercela fare?” 
“Io…” esitò per un brevissimo istante. “Io voglio provare”.
“Bene, allora domani ne parlerò con il direttore.”
Baraki spense la debole lampada che illuminava la stanza e i due giovani caddero in un sonno profondo cullati dai rumori della savana.
All’alba Asad fu svegliato dalla voce di Baraki. Ebbe bisogno di qualche secondo per realizzare dove fosse. Poi gli tornarono alla mente le immagini ed i discorsi del giorno precedente e fu pervaso da una duplice sensazione: aveva desiderio di lanciarsi in questa nuova vita, ma al tempo stesso si sentiva disorientato. Doveva ammettere a se stesso che aveva timore di questo cambiamento che l’avrebbe portato a confrontarsi con qualcosa di nuovo, con nuove persone e nuove situazioni; un’esperienza complessa per lui così chiuso ed introverso.
“Ho parlato con il direttore, Asad. Questo pomeriggio vuole incontrarti. Adesso però voglio mostrarti come si svolgono le nostre giornate. Per prima cosa andremo a trovare il cucciolo che abbiamo salvato ieri. Immagino sarai impaziente di sapere come sta”.
Asad annuì. Si vestì velocemente e, insieme, uscirono dall’edificio diretti verso la nursery. Al suo interno alcuni operatori erano intenti a dare il latte ai cuccioli con grossi biberon di plastica. Altri ne controllavano le condizioni di salute. 
I due giovani raggiunsero il recinto del nuovo arrivato. Il veterinario del giorno precedente lo stava visitando. Li vide arrivare e sorrise “Questo piccolo sta dimostrando di avere grinta. Sta decisamente meglio rispetto a ieri. Mi preoccupa soltanto che non voglia mangiare. E’ agitato e appena ci avviciniamo con il biberon ci spinge via con la proboscide”.
“Asad, perchè non provi tu?” propose Baraki. 
Asad era intimidito dal sentirsi al centro dell’attenzione, ma si avvicinò al cucciolo e lo carezzò perché si tranquillizzasse e riconoscesse il suo odore. Soltanto quando parve più calmo, prese il biberon e provò ad avvicinarglielo. Il cucciolo apparve per qualche istante ancora diffidente e poi bevve avidamente.
Baraki ed il veterinario sorrisero soddisfatti e quest’ultimo disse: “A quanto pare questo cucciolo ha trovato in te il suo punto di riferimento!”
Fu quello uno dei primi sorrisi che la nuova vita dipinse sul volto di Asad.  
“Sarai tu a prendertene cura?” chiese il veterinario rivolto al ragazzino.
Baraki rispose per lui: “Sì, certamente. Questo sarà il suo primo incarico nel periodo di apprendistato!”
“Allora benvenuto tra noi ragazzino! Ti aspetta un compito importante!” esclamò l’uomo.
Asad avvampò per l’imbarazzo e la gioia. 
Baraki disse a sua volta: “Sono certo che questo cucciolo sarà in buone mani! Piuttosto, non ha ancora un nome, Asad. Vuoi sceglierlo tu?”
“Rafiq” propose Asad, per il suo significato. Il nome scelto, infatti, significava ‘Amico’ e non era forse quello che stavano diventando?
Dopo la visita al cucciolo, Baraki e Asad trascorsero l’intera mattina nella savana. Baraki voleva capire quale fosse il grado di conoscenza dell’ambiente da parte di Asad ed al termine dell’escursione rimase molto colpito dalle competenze del ragazzo.
Nel pomeriggio, invece, Asad andò a parlare con il direttore e con lui si accordo’ sulle condizioni per il periodo di apprendistato. Asad chiese che una quota del salario andasse a sua zia Kainda, affinchè potesse ringraziarla dei sacrifici sostenuti negli anni. 
Nei giorni successivi Asad cominciò a prendersi cura del piccolo Rafiq, aiutando il veterinario e Baraki. Il piccolo riprese velocemente le forze ma per molti giorni continuò ad essere fortemente agitato. Solo la presenza del ragazzino sembrava calmarlo.  
Per lungo tempo Rafiq rifuggì anche il contatto con i suoi simili, cuccioli o adulti che fossero. Soltanto con tanta dedizione e pazienza, Asad riuscì ad aiutare il piccolo ad integrarsi con gli altri elefanti del centro. 
E man mano che il tempo passava anche il legame tra di loro si rafforzava.
E così trascorsero, una dopo l’altra, le settimane fino a diventare mesi e poi anni.
Asad crebbe ed anche Rafiq divenne grande e forte.
Il direttore e gli altri operatori del centro erano molto soddisfatti del lavoro svolto dal giovane ed erano molto colpiti dalla passione e dalla dedizione straordinaria che vi profondeva. Ed Asad era a sua volta soddisfatto della propria vita. Nel centro aveva trovato nuovi amici, una nuova famiglia. Aveva trovato il proprio posto nel mondo. 
Ed aveva altresì trovato un compagno di viaggio davvero speciale. 
Il ragazzino ed il cucciolo d’elefante avevano condiviso il difficile passaggio all’età adulta ed insieme erano riusciti a trovare la voglia e la forza di reagire alle avversità. Insieme avevano condiviso avventure, giochi, lunghe passeggiate nella savana. 
Non vi era giorno, infatti, in cui non spendessero delle ore insieme camminando fianco a fianco nell’erba fitta, in un silenzio carico di emozioni, quasi avessero imparato a comunicare tra di loro anche senza parole. 
Quando Rafiq si fermava a mangiare o a bere nello stagno, Asad sedeva sotto un albero e restava lì, immerso nel silenzio della natura, come tanti anni prima, ma senza più quel senso di terribile solitudine che gli faceva da sottofondo. L’incontro con Rafiq aveva definitivamente cambiato qualcosa dentro di lui, restituendogli fiducia e calore.
Asad però sapeva che ben presto sarebbe arrivato il giorno in cui il suo vecchio amico avrebbe dovuto prendere la propria strada e sapeva che sarebbe stato un momento difficile per entrambi.
Quando il direttore annunciò l’avvio del programma di reinserimento in natura, Rafiq cominciò a trascorrere sempre più tempo nella savana con la sola compagnia del gruppo di elefanti con cui era cresciuto. 
Per quanto graduale, il distacco non fu facile da gestire né per Asad né per l’animale. Per Rafiq, infatti, la presenza di Asad era divenuta una costante e ci volle del tempo perché si abituasse alla nuova famiglia fatta solo di animali, così come ad Asad sembrava strano non condividere più la maggior parte del tempo con il suo amico.
Arrivò infine il giorno in cui il gruppo di Rafiq avrebbe solcato il cancello dell’orfanotrofio per l’ultima volta. 
Asad era ancora disteso nel letto, mentre un leggero chiarore preannunciava l’imminente arrivo dell’alba. Gli occhi dolenti per l’insonnia seguivano la danza lenta di un’ombra sulla parete. Baraki dormiva ancora profondamente e, nel silenzio della stanza, Asad credeva di sentire il battito incessante del proprio cuore, quasi potesse balzargli fuori dal petto da un momento all’altro.
Non si sentiva pronto per quel momento che aveva provato tante volte a rinviare. Ma era chiaro che  pronto non lo sarebbe stato mai. 
Rafiq non era stato soltanto l’elefante di cui si era preso cura per tanti anni. Era stato l’amico silenzioso con cui aveva condiviso la propria solitudine e i propri pensieri. Era l’amico con cui era riuscito a sconfiggere il dolore ed affrontare di nuovo la vita con il sorriso. Come avrebbe potuto lasciarlo andare? Come avrebbe potuto affrontare adesso quelle giornate senza di lui?
Scacciò via quei pensieri, dandosi dell’egoista e rammentando ancora una volta a se stesso che restituire Rafiq alla natura avrebbe significato restituirlo alla sua vera vita, quella di cui i bracconieri avevano cercato di privarlo. Per quanto rassicuranti, le mura ed i cancelli dell’orfanotrofio costituivano una barriera tra il mondo dell’uomo e quello degli animali, un ostacolo al normale dispiegarsi delle vite di quei giovani elefanti. 
Ma da quel giorno Rafiq sarebbe stato libero.
Asad e gli altri operatori si incontrarono come ogni mattino all’ingresso del capannone di legno e paglia. Radunarono i giovani e vigorosi elefanti e li guidarono verso la savana. L’area prescelta era abbastanza vicina al centro così che gli operatori potessero continuare a monitorarli ed intervenire in caso di bisogno.
Il momento era arrivato. Asad era agitato ed anche Rafiq appariva inquieto, avendo compreso che qualcosa stava cambiando.
Il ragazzo gli si avvicinò e, abbracciandolo, sussurrò “Amico mio, il nostro cammino insieme finisce qui. Insieme siamo cresciuti e siamo diventati forti; adesso dobbiamo imparare a camminare da soli, ma resteremo inseparabili in questa terra e sotto questo cielo che continueremo a condividere.” 
Rafiq appoggiò la proboscide sulla sua spalla quasi volesse ricambiare l’abbraccio.
“Adesso dobbiamo andare Asad”, disse Baraki a voce bassa.
Nella luce rosa e ambra del tramonto Asad guardò il suo amico allontanarsi lentamente nella savana insieme agli altri elefanti.
“Te l’ho detto Asad, il rapporto che si instaura tra un uomo ed un elefante dura per sempre. Sopravvive al tempo e alla distanza” disse Baraki.
Asad sorrise e si avvio’ con gli altri ragazzi verso l’orfanotrofio.
I due cuccioli, cresciuti insieme curando reciprocamente le ferite che la vita aveva loro inferto, erano pronti ad affrontare il mondo e le sue nuove sfide, forti di ciò che erano diventati e con la consapevolezza che ciascuno dei due avrebbe portato dentro di sé un pezzo dell’altro.

mercoledì 29 aprile 2015

Racconto breve: Le tele di Giulia

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Le note di una vecchia canzone napoletana riecheggiavano soffuse nella sala ormai vuota, una musica d’altri tempi che si mescolava al vento leggero che agitava le tende di seta portando con sé il profumo delicato della notte. Anche gli ultimi ospiti avevano lasciato l’elegante palazzo di Santa Lucia. 
Giulia appoggiò le braccia nude sul marmo fresco della grande finestra che dava sul golfo addormentato, soltanto il chiarore delle stelle e delle lontane lampare dei pescatori ad illuminare la distesa d’acqua che si muoveva pigra. La giovane respirò a fondo l’aria densa di salsedine e, lasciandosi cullare dalle note di sottofondo, chiuse gli occhi. 
Era stata una delle rare volte in cui Giulia, incoraggiata dal maestro, aveva esposto i propri dipinti e non si aspettava tanto successo tra gli invitati. Era riuscita a vendere anche alcune tele, anche se ad un prezzo molto inferiore al loro valore. 
Per lei, così timida e schiva, era stata una battaglia prima di tutto interiore decidere di presentare al pubblico le proprie opere; e come se non bastasse aveva dovuto combattere a lungo con il padre che, pur avendo egli stesso promosso nella figlia l’amore per la cultura in ogni sua forma, non aveva mai accettato l’idea che la ragazza amasse la pittura al punto da voler rivolgere ad essa ogni sforzo. Il padre, nella vana speranza di disincentivare la tendenza artistica della giovane, era giunto persino a negarle i fondi per l’Accademia e per l’acquisto dei materiali necessari per la pittura. 
Giulia, tuttavia, non si era mai data per vinta e, anche grazie all’aiuto della sorella maggiore, era riuscita ad avere sempre a disposizione grandi tele da far vivere con il tocco di tempere ed oli. 
E così non era raro incontrarla sulle scale della Chiesa di Sant’Antonio intenta a tratteggiare sagome di alberi e nuvole, a tradurre in colore attraverso pennellate brevi e decise il profumo dei fiori o il moto armonioso delle onde del mare; così come non era raro riconoscere il suo cappotto verde tra i vicoli dei quartieri spagnoli, assorta nel trasporre sulla sua tela il dolore e, allo stesso tempo, la sorprendente vitalità di quel mondo a sé, stretto tra il lungomare e la collina del Vomero. 
Il dipingere non era, per Giulia, un esercizio di sterile riproduzione del mondo né un disperato tentativo introspettivo. Per lei la pittura rappresentava uno strumento di ricerca e cattura di un segnale di ottimismo in un’epoca alla deriva. E questo era quel che si poteva cogliere negli accesi contrasti di colore che sapevano di vita e di morte, nelle pennellate incisive che sfumavano in tocchi di colore leggero racchiuso in forme quasi impalpabili.
Eppure, non era solo la sua timidezza e la ferma opposizione del padre ad ostacolare il percorso artistico della giovane. Giulia si trovava a combattere contro una società in caduta libera, in cui l’arte si svuotava di contenuto e diventava, nel migliore dei casi, eccesso di sperimentazione e, nel peggiore, sterile e volgare provocazione. 
Allo stesso tempo Giulia si trovava a fare i conti, insieme alle compagne dell’Accademia, con un anacronistico ma resistentissimo scetticismo verso la pittura femminile, che chiudeva loro le porte delle manifestazioni più rilevanti. Condividendo un’esperienza comune a molte altre donne, la giovane si confrontava difatti con le difficoltà che nascevano da una netta prevalenza maschile nel mondo della pittura, un mondo dove soltanto gli uomini sembravano degni di reale credibilità, quasi che lo svolgimento professionale dell’arte pittorica potesse essere considerato quale loro esclusivo appannaggio.
Sulla scia di queste riflessioni, i suoi pensieri andarono ad una pittrice, nata a Venezia nella prima metà dell’Ottocento e napoletana d’adozione per i lunghi anni ivi trascorsi. Elda Genovesi era la donna e pittrice che, attraversando quasi un secolo di storia e di vita, aveva celebrato l’universo femminile nelle sue molte forme e che, con il suo approccio grintoso e vitale, aveva vinto la propria battaglia riuscendo a vivere d’arte in un ambiente ed in un’epoca per tanti aspetti ancora ostili. In un mondo dominato dal conservatorismo culturale dell’Accademia da un lato e dal vuoto perbenismo della nobiltà dall’altro, la Genovesi aveva rappresentato una rara quanto pregevole eccezione. E a lei si era sempre ispirata Giulia nei momenti di maggiore sconforto. 
La giovane era assorta in questi pensieri quando, d’improvviso, avvertì la brezza trasformarsi in un brivido leggero sulle spalle nude, mentre lenta si levava una voce femminile ad accompagnare, quasi in un sussurro, le note che dall’impianto stereo si liberavano nell’aria. 
Giulia si guardò attorno, ma non vi era nessuno accanto a lei nella stanza, né alcuno degli ospiti sembrava essersi trattenuto nel cortile. Sporse leggermente il busto fuori dalla finestra, spingendo lo sguardo nelle anse meno illuminate del giardino. 
In un angolo, sulla panca sotto la grande magnolia, scorse una donna dai lineamenti non più giovani che, avvolta in un abito azzurro, le sorrideva. Giulia la guardò incuriosita, cogliendo in quel volto sembianze familiari. 
La donna, con un cenno della mano, invitò la giovane a raggiungerla in giardino. Giulia non ebbe esitazione, scese veloce le scale e, quando si ritrovò dinanzi alla donna, non ebbe dubbi: si trattava proprio della Genovesi. 
«Vieni, siedi accanto a me!» la esortò quest’ultima con voce allegra.
Giulia la guardò incredula, ma accolse l’invito e prese posto accanto a lei.
La Genovesi volse lo sguardo verso Giulia ed esclamò sorridendo: «I tuoi quadri sono piaciuti!»
Con una spontaneità che non le sarebbe appartenuta in altre circostanze e senza alcun timore, Giulia rispose: «E’ vero e questo mi rende felice».
«Ma c’è qualcosa che ti turba, vero?» chiese la donna.
«La pittura fa parte del mio modo di essere, contribuisce a definirmi e avrei difficoltà ad immaginare una vita senza tele e colori. Ma mi addolora la percezione che non ci sia davvero spazio per l’arte, almeno non secondo il mio modo di intenderla» rispose Giulia malinconica. 
La giovane si fermò un istante come a raccogliere i pensieri, riprendendo poi con maggior vigore: «Viviamo nella celebrazione dell’inutile, in un mondo in cui chiunque reclama per sé il titolo di artista, circondato da una platea acerba o ignorante che avvalora la legittimità di questa pretesa! E forse ciò che mi addolora di più è la battaglia che ci ritroviamo a combattere quotidianamente contro una società che diventa sempre più meschina e violenta; una società che arriva a ripudiare e distruggere l’arte ogni volta in cui sia portatrice di valori non condivisi. Così come mi sembra pura follia che le donne, certo in Oriente più che qui, debbano ancora accontentarsi di un ruolo secondario in qualcosa che è l’espressione di sé e della propria visione del mondo, come qualsiasi altra arte!»
La Genovesi sospirò: «Giulia, quella grettezza che oggi ti scandalizza è sempre esistita: rivendicare come arte ciò     che non lo è; distruggere ciò che non si capisce o condivide; disprezzare o ignorare ciò che non fa parte della propria tradizione e dei propri costumi sociali; o ancora, tentare di fermare il tempo ed il progresso culturale. Tutto questo fa parte dell’uomo e della sua chiusura mentale. Ed è questa chiusura, la difficoltà di aprirsi al nuovo e al diverso ad aver ostacolato anche la    pittura femminile. Quel che oggi accade in Cina o in Afganistan è quello che, sia pure in forme diverse, hanno vissuto le pittrici in Europa nei secoli scorsi. Ti parlo di tempi in cui le Accademie erano precluse alle donne ed in cui la pittura femminile era considerata soltanto un aspetto dell’educazione o un semplice passatempo.»
«Certo, ma a che punto siamo davvero arrivati oggi? Anche se nei musei, nelle sovrintendenze e in genere nel mondo dell’arte, molte donne riescono a farsi strada con successo, ho la sensazione che una reale parità non esista ancora! D’altra parte, la necessità di parlare continuamente di parità non significa forse ammetterne l’inesistenza?»
«Lo so come ti senti mia cara e, credimi, la tua frustrazione è comune a tutti coloro che hanno il talento e la sensibilità di comprendere cosa sia l’arte. Prova a guardare indietro, Giulia. Pensi che la vita sia stata facile per me? Pensi che lo sia stata per la Gentileschi o la Frai o per Suzanne Valadon, giusto per fare qualche esempio? Per tutte noi portare avanti la nostra passione ha implicato sacrifici. 
Ha significato fare i conti con una critica che ci ha sempre relegato nel dilettantismo, anche quando riteneva che i nostri quadri avessero spessore artistico. E pensa anche a tutte le pittrici che sono riuscite a guadagnare un piccolo spazio di fama soltanto vivendo della luce riflessa di mariti ben più noti.» 
Giulia tacque per qualche istante, poi disse con tristezza: «Ho sempre cercato di non arrendermi e di andare avanti per la mia strada, ma a volte ho la sensazione che sia impossibile far sentire davvero la mia voce.»   
«Dammi la mano» disse la Genovesi, alzandosi in piedi.  
«Voglio mostrarti qualcosa.» 
Giulia guardò la mano tesa verso di lei e, con un pizzico di esitazione, la strinse nella propria. D’improvviso il giardino, il palazzo e le lampare dei pescatori scomparvero lasciando spazio ad un tempo e ad un luogo diversi. 
Giulia riconobbe l’ampia sala del Gambrinus, con i suoi lampadari luccicanti, i tavoli tondi con le sedie rivestite di seta rossa, le statue e i dipinti ad arricchire le pareti. Poteva avvertire anche l’intenso aroma del caffè ed il profumo fragrante delle sfogliate alla crema.
In una sala scorse dei cavalletti su cui riconobbe alcuni tra i più celebri dipinti della Genovesi. Uomini e donne, elegantemente vestiti, si muovevano tra di essi, chiacchierando e sorridendo. 
Una grande tela, addossata ad una delle pareti della sala, attirò la sua attenzione. Non l’aveva mai vista, né esposta nei musei né proposta nei libri d’arte. Ritraeva una scena di battaglia: in un villaggio di campagna, uomini armati si lanciavano l’uno contro l’altro in uno scontro acceso, mentre una nuvola di polvere si sollevava nell’aria, mescolandosi alle nuvole basse che oscuravano il sole che tentava di far capolino dietro alle colline. In primo piano, due bambini stretti accucciati al suolo, stretti in un abbraccio terrorizzato, gli occhi serrati e le mani a proteggere le orecchie dalle grida e dagli spari. 
Giulia rimase colpita da quel paesaggio e da quei volti dall’espressione cosi intensa da sembrare reali. La giovane si sentì rapita, le sembrava di poter sentire l’odore intenso di polvere penetrare nelle narici, di udire le urla soffocate dei soldati che cadevano al suolo insanguinati. Poteva percepire il terrore impresso sul volto dei bambini; avrebbe quasi voluto allungare una mano e strapparli via da quella scena, portandoli al sicuro. 
Una voce la riportò alla realtà. Accanto al quadro, una Genovesi ancora giovane descriveva ad un piccolo gruppo di persone le ragioni che l’avevano portata a dipingere quella scena. La pittrice, ragazzina, si era ritrovata ad assistere impotente ad una cruenta battaglia durante le guerre d’indipendenza, che l’aveva segnata in profondità. 
Il pubblico esprimeva compiaciuto il proprio apprezzamento per la tensione emotiva del quadro, per l’espressività dei volti e per l’eccellente uso dei colori, quando un uomo, con monocolo e fazzoletto rosso nel taschino, si avvicinò alla grande tela, esclamando con aria sprezzante: «Quanti commenti lusinghieri! E’ facile credersi grandi artisti quando a giudicare le proprie opere è un pubblico compiacente o che ignora la vera arte!» 
Nella sala calò un silenzio carico di imbarazzo. L’uomo era un celebre critico d’arte, noto per i commenti sfrontati, ruvidi e per l’acceso maschilismo. Elda non reagì e l’uomo ne approfittò per proseguire nel proprio attacco: «Cosa crede signorina? Che sia sufficiente l’uso di colori scuri per riflettere la tragedia della guerra? E le sembra forse che in questo quadro ci sia armonia nelle proporzioni e nelle forme? E’ evidente mia cara, che lei non ha alcuna attitudine nel dipingere grandi tele. D’altronde è noto che soltanto i grandi possano cimentarsi in simili imprese. In fin dei conti, quante donne hanno osato approcciarsi a lavori di questo tipo? Ascolti il mio consiglio, faccia come tutte le altre signore: si dedichi alle miniature, alle nature morte e lasci la pittura storica a chi è in grado di confrontarsi con questi temi e con tele di simili dimensioni. Il rischio, diversamente, è quello di scadere nella mediocrità. E la pittura non ha bisogno di mediocrità» disse sottolineando le ultime parole con un sorriso tagliente. 
Elda abbassò lo sguardo, il viso arrossato dalla vergogna e dalla rabbia. Avrebbe   voluto gridargli di andarsene, di lasciare quella sala dove non aveva alcun diritto di entrare vomitando insulti e cattiverie. Un uomo che non era in grado di guardare oltre la punta del proprio naso e che doveva la propria posizione alla protezione   della famiglia reale e al conservatorismo che ancora resisteva nella società di quegli anni. Una società in cui la donna era relegata all’ambiente domestico dove le era concesso dipingere scene ritenute ad essa consone, la maternità, i giochi tra bambini, momenti della vita quotidiana.
Ma serrò stretti i pugni e tacque, consapevole che se avesse tentato di difendere i propri quadri e la propria dignità contro gli insulti di quell’uomo, avrebbe sortito l’effetto opposto, vanificando del tutto la possibilità di accedere ai più rinomati salotti del regno.
La piccola folla che la circondava si disperse nella sala in un silenzio imbarazzato, lasciando la giovane Elda sola e con il cuore in pezzi. 
In quel momento Giulia si ritrovò catapultata in un nuovo luogo. Si trovava in una stanza scura, con il tipico odore pungente della trementina. Da una porta giungeva una luce soffusa; la giovane vi si avvicinò e vide Elda singhiozzare. Appoggiata alla parete c’era la grande tela che aveva visto al Gambrinus. 
Vide Elda afferrare un punteruolo e distruggere ciò che con quelle stesse mani aveva creato, accasciandosi poi al suolo in un pianto disperato. Giulia provò un intenso dolore a quella vista, quasi potesse sentire dentro di sé il senso di sconfitta e la frustrazione profonda della pittrice. 
Si sentì nuovamente stringere la mano e la stanza scura satura di trementina lasciò spazio al profumo della notte, con il suo odore di gelsomini e di mare. Giulia sedeva di nuovo sulla panca del proprio giardino, accanto alla Genovesi sul cui volto era comparso un triste sorriso. 
«Come vedi Giulia, anche io ho dovuto combattere contro una società in cui esprimere la propria voce, specialmente quando si trattava di una donna, era davvero difficile. Ma questo non ha mai impedito, né a me né a tanti altri, di continuare a credere nell’importanza dell’arte, quella vera, quella non banale, quella che non si lascia lusingare dalla celebrità effimera o dal potere politico» osservò Elda.
«Quel che dici è vero. Ma a volte temo che la società stia sprofondando in un abisso senza fondo. Come posso comunicare qualcosa a qualcuno che non vuol vedere e sentire altro rispetto a ciò che vive e comprende? Come posso partecipare al processo di cambiamento di un mondo che in realtà non vuol cambiare?».
«Giulia, è proprio nei periodi come questo, in cui la società sembra perdere la propria identità e la propria direzione, che il lavoro di denuncia, ed allo stesso tempo di ricerca e di studio, dell’artista, uomo o donna che sia, diventa ancora più fondamentale. Adesso ti sembra di rimanere inascoltata, ma non è così. Tutto ciò di cui, attraverso la tua arte, dai ogni giorno testimonianza, contribuisce a ricostruire la coscienza sociale» rispose Elda. Ed aggiunse con maggior dolcezza: «E questo avviene anche se tu non te ne rendi conto. Giulia, cara, lo so che è difficoltoso farsi strada ed è altresì difficoltoso riuscire a sostenersi economicamente, ma se credi davvero nell’arte e nella sua funzione sociale, varrà la pena di sacrificare qualcosa della tua vita, giacché la ricchezza viene dalla consapevolezza che ciò che crei sarà eterno e che, con il tuo contributo, riuscirai a rendere forse migliore questo mondo. Ma questa è una scelta: nessuno esclude che tu possa voler scivolare nell’indifferenza, diventando cieca e sorda davanti alla realtà, o lasciando che le tue tele si impolverino rinchiuse tra le mura dello studio.»
Giulia si alzò dalla panchina e fece qualche passo verso la magnolia, i cui grandi fiori bianchi emanavano il loro caratteristico profumo dolce e penetrante. Non aveva sempre amato quel fiore per il suo significato? Non era la magnolia il simbolo della perseveranza? Quello che portava tatuato finanche sulla caviglia, come pro-memoria per i momenti in cui si sentiva sopraffatta dalle difficoltà. Accarezzò il tronco dell’albero.
«Sì Giulia, devi continuare a perseverare» disse Elda quasi le leggesse nel pensiero, «Tu come tutti gli scrittori, i musicisti e gli altri artisti - quelli, come dici tu, degni di questo nome - che vivono quest’epoca difficile. Rinunciare all’arte significherebbe rinunciare a se stessi ed al proprio ruolo nella società.» 
La Genovesi si alzò a sua volta dalla panchina. «Servirà tanto coraggio Giulia e so che tu ne hai!» e rivolgendo alla giovane un ultimo sorriso, si voltò scivolando lentamente nella notte. 
Le note della canzone d’improvviso cessarono.
Giulia si guardò attorno. Era sola. 
Era stato solo un sogno ad occhi aperti?
Guardò il fiore di magnolia che aveva tra le mani.
Non aveva importanza.
Le sue tele l’aspettavano. I suoi oli e le sue tempere avrebbero colorato la notte. 
Quella notte e tutte quelle che sarebbero venute.
Perché il mondo potesse, un giorno, essere irradiato di luce nuova.

lunedì 26 gennaio 2015

Racconto breve: Amal, viaggio al di là del Mediterraneo

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Foto: copyright © 2016 Andrea Giuseppe Sanfilippo
Amal manteneva pulito il suo angolo di strada.
Ogni mattina alle otto prendeva posto sul ponticello coperto in Via degli Olmi, appoggiava la sua borsa sul muretto accanto a lei, apriva uno sgabello su cui si sarebbe riposata nel corso della giornata e, armata di scopa e paletta, rimuoveva ogni rifiuto.
Non una carta, non un mozzicone di sigaretta sfuggivano al suo occhio attento.
Amal non poteva tollerare quel mondo sporco e disordinato e così carico di indifferenza, così diverso da ciò che le avevano promesso.
Durante il lungo viaggio che dalle sponde della Siria l’avrebbe portata in Italia, sognava di città e strade piene di fiori e colori.  Immaginava un mondo che profumava di libertà e di rispetto. Raggomitolata nel suo mantello scuro, il calore di quei sogni l’aveva riscaldata durante i gelidi giorni di viaggio in cui la pioggia, le onde ed il vento le sferzavano con violenza il viso. Le avevano promesso un lavoro dignitoso, la possibilità di studiare, la possibilità di avere una casa. Le avevano promesso la pace, un miraggio per una giovane che d’improvviso era stata catapultata nell’orrore della guerra.
Lei aveva creduto ciecamente a quelle promesse, ma giunta in Italia i suoi sogni si erano trasformati in amara disillusione.
Sbarcò di notte sulle coste europee, ed insieme ad altre donne fu separata dagli uomini, caricata con forza su un camion e nascosta tra casse maleodoranti. Il mezzo correva su una strada tortuosa. Amal veniva sballottata tra le casse nei continui sobbalzi. La testa le girava, sentiva lo stomaco contorcersi in spasmi.
In una campagna desolata, dopo un’interminabile giornata di viaggio, il camion fermò la sua corsa.
Amal e le altre donne furono spinte in un casale abbandonato, guardato a vista da uomini armati.
All’interno della costruzione altre donne giacevano su materassi di fortuna.  Amal chiese dove fossero e cosa stesse accadendo, ma in tutta risposta fu spinta via con insulti e schiaffi.
Prostituzione: ecco cosa le attendeva.
Amal si lasciò andare a terra sgomenta. Aveva lasciato l’orrore della guerra per qualcosa di ancor più ripugnante. Era terrorizzata, come terrorizzate erano le altre donne che avevano viaggiato con lei. Si strinsero le une alle altre contro il muro. Piangevano, si lamentavano, alcune pregavano a bassa voce quel dio da cui si sentivano abbandonate.
La notte stessa furono lasciate in una strada buia dove avrebbero dovuto attendere i loro clienti, uomini rozzi, senza dignità e senza rispetto.
Amal avrebbe voluto morire, essere inghiottita dall’asfalto nero.
Gli aguzzini che le tenevano prigioniere le avevano minacciate: se solo avessero tentato di fuggire o di chiedere aiuto avrebbero ucciso loro e le loro famiglie dall’altro lato del Mediterraneo.
Amal non aveva nessuno, era rimasta sola. Non aveva nulla da perdere.
Un’automobile le si accostò accanto, la costrinsero a salire.
Ma Amal non era sfuggita alla guerra e attraversato il mare per lasciare che la sua vita venisse ridotta in brandelli, il suo corpo e la sua mente profanati.
Appena l’auto si allontanò lei scongiurò l’uomo di lasciarla libera.
L’uomo la fissò per un instante e rimase incerto davanti allo sguardo implorante della giovane, ma il suo animo fu attraversato dall’intensità di quella supplica, e dal carico di dolore celato dietro quegli occhi.
Fu fortunata Amal quella notte.
L’auto si fermò. La ragazza, esitante, provò ad aprire lo sportello; l’uomo la guardò con aria incoraggiante.
Lei gli rivolse un ultimo sguardo di ringraziamento e cominciò a correre, quanto più veloce poteva.
Corse instancabilmente per ore e ore, riposando soltanto pochi minuti per volta.
Aveva paura di essere rintracciata dai suoi aguzzini o di essere fermata dalla polizia. Non aveva documenti, non aveva nulla con sé.
Stremata raggiunse una piccola cittadina. Iniziò a piovere. Lei continuò a vagare cercando riparo finché in lontananza vide un ponte coperto. Il Ponticello di Via degli Olmi.
E fu lì, sotto quel ponte che la ospitò in quella notte di pioggia, che ebbe inizio la sua avventura.
Arrivò il mattino, il sole era ormai alto e caldo mentre Amal si stiracchiava; le ossa le dolevano per l’umidità e la posizione rannicchiata che aveva assunto durante il sonno. Stropicciò gli occhi e vide dinanzi a sé due stivaloni marroni. Uno di quegli stivali batteva ritmicamente sulle vecchie maioliche del ponte.
Alzò lo sguardo spaventata e vide davanti a sé un donnone che le sorrideva con aria allegra e compiaciuta. A mento alto, la donna esibiva con una certa vanità i suoi capelli bianchi raccolti in un morbido chignon e spessi occhiali dalla montatura da gatto che incorniciavano occhi vivaci e briosi. Dal cappotto di lana verde scuro sbucava un lembo d’abito del colore delle susine mature mentre un foulard a righe le avvolgeva lezioso il collo.
“Oh, finalmente ci siamo svegliate!” esclamò con un tono di finto rimprovero. Ed aggiunse: “Sono ore che sono qui ad aspettare che ti svegli. Ti sembra l’ora?”
“Guarda!” proseguì sventolandole sotto il naso un sacchetto di carta che rilasciò nell’aria un profumo dolce e fragrante, “ho comprato anche la colazione! Ed è stato difficile resistere dal mangiare anche la tua parte! Ma ecco, è ancora tutto qui” aggiunse porgendole il sacchetto.
Amal la guardava incerta, frastornata dalla stanchezza e dalla voce squillante della donna. Le ispirava simpatia, ma poteva fidarsi? Buonsenso ed educazione le suggerivano di non accettare, ma lo stomaco non volle sentir ragioni.
“Forza!” esclamò impaziente la donna “che qui si fredda tutto!”
A quel punto Amal buttò all’aria quel che le avevano insegnato sull’accettare il cibo da estranei ed allungò la mano ad afferrare il sacchetto. Lo aprii e rimase inebriata dal delizioso profumo dei dolci, piccole e morbide brioches ripiene di marmellata alle more. Le mangiò lentamente assaporando ogni singolo boccone e sperando non finissero mai. Non aveva mai mangiato un dolce così buono.
Quando finì guardò la donna con un’aria mista di gratitudine e curiosità.
“Bene” disse l’anziana “adesso che hai fatto colazione possiamo presentarci. Io sono Eleide, mentre tu sei Amal. Vero?”
La ragazza la guardò d’improvviso spaventata e si strinse contro il muro. L’avevano trovata pensò! E forse l’avevano appena avvelenata con quelle brioches. Un lampo di terrore attraversò il suo sguardo, ma Eleide intervenne subito a tranquillizzarla. 
“Non devi aver paura Amal!” disse senza perdere il suo tono allegro e vagamente canzonatorio. “Sapevo che saresti arrivata. Avevo percepito il tuo arrivo quando eri ancora al di là del Mediterraneo e sapevo che in una notte di pioggia ti avrei trovata qui.”
Amal la guardava a bocca aperta ed occhi sgranati. Stava sognando? “Ma non capisco, tu…” balbettò Amal. 
“Non c’è bisogno di capire. Poco importa chi sia io. Ciò che importa è quel che ti attende, ma anche questo lo capirai a tempo debito. Per ora devi sapere soltanto che questo è il tuo posto e che qui sarai il sicuro. Ciao Amal, abbi cura di te!”. E così concludendo Eleide si allontanò.
Amal rimase per qualche minuto confusa, le sembrava impossibile che quell’incontro si fosse verificato davvero. Aveva avuto un’allucinazione? Il viaggio, la stanchezza, la paura forse le stavano giocando un brutto scherzo.
Tuttavia le briciole di brioches sul suo vestito non erano fantasia. Ma allora chi era quella donna e cosa aveva voluto dire con quelle parole? Decise di non pensarci, ma dentro di sé si sentiva rasserenata al pensiero che quello potesse essere il “suo posto sicuro”.
Si alzò, si guardò intorno e pensò che se quella piccola città e quel ponte dovevano essere il suo rifugio, occorreva trovare un tetto per la notte.  Presto sarebbe arrivato l’inverno e avrebbe rischiato di morire assiderata. Raccolse la piccola borsa che era riuscita a salvare durante il lungo viaggio e, con un pizzico di timore, iniziò a scendere le scale che dal ponte conducevano verso la via principale che aveva percorso la notte precedente sotto la pioggia.
Com’era diversa la cittadina adesso, illuminata dai raggi caldi del sole, mentre i suoi abitanti pian piano riprendevano le attività quotidiane: mamme che accompagnavano bimbi dagli zainetti colorati all’ingresso delle scuole, negozianti che lustravano le vetrine o che si godevano qualche raggio di sole in attesa dei clienti, ritardatari che si affrettavano lungo i marciapiedi.
Amal camminò per ore mentre il tepore di quella giornata di fine settembre le restituiva forze ed energia. Vagò per i vicoli stretti della città, tra i palazzi di pietra grigia dai cui balconi pendevano piante fiorite.
Ogni tanto incrociava qualche sguardo, a volte carico d’empatia, a volte di disgusto e disapprovazione.
Si sentiva così inappropriata, così sola. Lontana da tutto, lontana da ciò che era stata fino a quel momento. Guardò la propria immagine riflessa in una vetrina e provò vergogna.
Ma non era lei a doversi vergognare; non doveva appartenerle quel sentimento che avrebbe dovuto assalire piuttosto chi le aveva distrutto i sogni e le speranze, che l’aveva costretta ad abbandonare la propria patria e a ricominciare altrove. Forse l’Occidente non era ciò che le era stato promesso. Aveva trovato una strada buia al posto di una casa, un mestiere raccapricciante in luogo di un lavoro onesto, nemici pericolosi anziché una nuova famiglia.
Stava ormai calando il buio ed Amal non riusciva a trovare un luogo in cui dormire. Presa dalla stanchezza si adagiò su una panchina e cadde in un sonno profondo. La notte fu densa di incubi. Fotogrammi delle fiamme che avvolgevano la sua casa si accavallavano a spezzoni del viaggio in mare, al suo vagare fino alla piccola città. Nel sonno pianse, si agitò.
Al mattino fu svegliata da un cane che le scodinzolava festoso attorno. Ebbe un sussulto, veloce si alzò.
Vide una fontana e si lavò il viso. Era sconvolta, aveva paura, si sentiva disorientata. Non poteva più contare su nessuno. Ma lei non si sarebbe arresa, avrebbe dovuto dare un senso all’essere l’unica sopravvissuta della sua famiglia, spazzata via durante il violento attacco al suo villaggio.
Il suo nome significava speranza e lei non poteva smettere di sperare. Doveva aggrapparsi a qualcosa.
Decise che le parole di Eleide dovevano avere necessariamente un senso.
Si diresse verso il ponticello, seguita dal simpatico randagio. Forse quello era davvero il suo luogo sicuro e forse lì l’avrebbe attesa, in qualche modo, il suo futuro.
Raggiunse la scalinata che conduceva al ponte. Accanto ad essa vide uno sgabello e lo prese con sé per farne la sua sedia. Salì i gradini e lo posizionò al centro del ponte, prese posto e appoggiò le spalle alla parete. Lo sgabello era piccolo, scomodo, ma sentiva che le conferisse maggiore dignità.
“E adesso?” si chiese. “Adesso aspetto, anche se non so esattamente cosa aspettare” pensò tra sé.
Non trascorse molto tempo che un passante  lasciò cadere distrattamente qualche moneta accanto a lei. Per un istante pensò che le avesse perse ed era pronta a chiamarlo e riconsegnarle quando un altro passante le lasciò un’altra monetina. E poi un altro ed un altro ancora. Amal arrossì profondamente. Non intendeva chiedere l’elemosina. Guardò le monetine mentre lo stomaco gorgogliava affamato.
“Va bene” si disse “utilizzerò questi soldi per acquistare del cibo, ma io non voglio chiedere la carità a nessuno: questi soldi me li devo guadagnare.”
Si guardò attorno in cerca di idee. Aveva già notato con fastidio la gran quantità di immondizia che giaceva sulle scale e sulle maioliche impolverate. Ecco! Avrebbe lustrato il ponte e la scalinata fino a far sparire ogni granello di polvere. Vide accanto ad un bidone in Via degli Olmi una scopa ed una paletta e fu così che, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti, cominciò a rimuovere la spazzatura.
Soltanto quando ogni foglio di carta appallottolato, ogni lattina ed ogni cicca furono sparite decise che poteva ritenersi soddisfatta. E soltanto allora andò ad acquistare del cibo e dell’acqua; non mangiava dalla mattina precedente ed era davvero affamata.
Dopo il frugale pranzo ritornò alla sua postazione.  Era incredibile come nel giro di un’ora il ponte fosse di nuovo sporco. Eppure c’erano i cestini per l’immondizia. Perché non usarli? Quanta indifferenza, pensò tra sé la ragazza, prendendo nuovamente scopa e paletta e rimettendosi all’opera.
Amal trascorse in questo modo quel giorno e i giorni che seguirono. Le notti, invece, le trascorreva in un piccolo cantuccio sotto il ponte.  Era nascosto, si sentiva sicura. Il nuovo amico a quattro zampe le faceva compagnia. Al mattino ciascuno prendeva la propria strada per poi ritrovarsi al tramonto e, nelle giornate in cui Amal riusciva a guadagnare abbastanza per comprare del cibo, divideva con lui quel che riusciva ad acquistare.
Passarono i mesi e la ragazza divenne una presenza normale nel quartiere, i passanti la salutavano, qualcuno si fermava a chiacchierare con lei, qualcuno le offriva del cibo o degli abiti caldi.  Soltanto di Eleide neanche l’ombra. Forse era stato davvero solo un sogno.
Ad Amal piaceva guardar passare tutte quelle persone, immaginare i loro pensieri mentre si affrettavano diretti chissà dove e chissà a far cosa. Immaginava le loro vite e i loro desideri ed immaginava come sarebbe stato poterli sentire e magari realizzare quelli più meritevoli.
Anche Amal aveva un desiderio:  il desiderio inespresso di ritrovare una vita normale e dignitosa; e proprio quando la speranza aveva cominciato lentamente ad affievolirsi, qualcuno quel desiderio lo realizzò.
L’inverno successivo a quello del suo arrivo nella cittadina fu molto rigido; da settimane la temperatura non superava lo zero. Amal si ammalò e per diversi giorni rimase rintanata nel suo cantuccio sotto il ponte, con la sola compagnia dell’allegro e affettuoso randagio.
Una mattina, finalmente, si sentì meglio ed anche il sole mandava tiepidi raggi. Amal uscì dal suo riparo e si avviò verso la strada principale e poi da lì si addentrò in alcuni vicoli che non aveva mai percorso.
Da una pasticceria le arrivò il profumo di brioches appena sfornate: brioches alle more! Non poteva sbagliarsi: era proprio il profumo delle brioches che le aveva portato Eleide.  Amal la raggiunse e rimase con il naso attaccato alla vetrina incantata dai grandi vassoi argentati su cui troneggiavano dolcetti, torte e biscotti. La pasticcera dall’interno la guardò e le fece cenno di entrare. Amal esitò un attimo, poi spinse la porta facendo tintinnare una campanella dorata. 
“Vieni avanti!” la incoraggiò la donna con aria affabile.
Amal non parlava, non sapeva cosa dire. 
Parlò per lei la donna. “Hai l’aria di chi ha passato una brutta avventura. Siedi, mentre preparo un thè.”
Amal si guardò in uno specchio attaccato alla parete dietro al bancone. Aveva davvero un pessimo aspetto, i capelli arruffati, le occhiaie, le scarpe infangate ed il suo maglione strappato sul braccio. Arrossì e provò a nascondere almeno lo strappo. 
La signora la guardò e sorrise. “Non devi vergognarti, sai, a tutti può essere successo di vivere un momento difficile.”
La donna lesse nello sguardo della ragazza una profonda sofferenza e la invitò a sedersi con un gesto della mano. Amal prese posto davanti a lei mentre la signora versava ad entrambe una tazza di thè al gelsomino.
Che profumo delicato aveva quel thè. Ad Amal tornarono in mente i pomeriggi in cui da bambina giocava nel cortile terroso della sua abitazione mentre dalla finestra aperta della cucina, sita al pianterreno, le giungeva quello stesso aroma. Respirò a fondo, chiuse per un istante gli occhi e per quell’istante le sembrò d’esser tornata a casa, d’esser tornata bambina, quando la Siria era un paese in pace e quando tutta la sua famiglia la circondava riempiendola d’affetto.
Riaprì gli occhi, la donna la guardava con dolcezza. Aveva grandi occhi chiari e capelli morbidi che le incorniciavano il viso tondo; un   grembiule a righe beige e rosa copriva una corporatura generosa. “Io mi chiamo Ilda. Qual è il tuo nome?” chiese la donna.
“Amal” rispose la ragazza.
“Ti va di parlarmi di te? Hai l’aria di chi deve aver sofferto molto” disse Ilda prendendo un sorso di thè.
Amal strinse tra le mani la tazza calda, inspirò e cominciò. Parlò della sua vita felice prima della guerra, una vita  in un piccolo villaggio vicino Aleppo; ricordò la sua terra che profumava di spezie ed incenso, la sua famiglia numerosa e allegra, i pomeriggi trascorsi a cucire i tradizionali scialle dalle tinte intense e vivaci. E ricordò la paura nei primi giorni di disordini, di attacchi, ricordò il suo villaggio saccheggiato, le fiamme, la violenza, la distruzione, la sua famiglia sterminata. Si era salvata soltanto lei. Quel giorno era ad Aleppo a comprare delle stoffe. Nonostante la paura e le difficoltà di quelle settimane, cercava di continuare a vivere la propria vita, ma quel giorno la violenza e la crudeltà umana avevano cancellato ogni possibilità di normalità.
Era al mercato quando si diffuse la notizia che il suo villaggio era stato attaccato e quando vi fece ritorno non ne restava più nulla. L’orrore, lo sgomento ed il dolore furono tali che dai suoi occhi per giorni non scese neanche una lacrima. Era bloccata come in un fotogramma. Era ancora lì ferma, immobile, davanti a ciò che restava della sua casa data alle fiamme, i corpi dilaniati della sua famiglia, l’odore del fuoco. Restava imbambolata, lo sguardo perso nel vuoto, mentre il vento soffiava portandole il pianto disperato dei bambini rimasti orfani, i lamenti strazianti di chi, come lei, aveva perso tutto.
I ricordi, la vita, il futuro. Nulla più restava e lei avrebbe voluto esser morta, come i suoi genitori, le sue sorelle e i suoi fratelli. Ma era condannata a vivere in una realtà violata in cui lei non era più in grado di riconoscere se stessa. Non restava che partire, scappar via lontano. Quante volte le avevano parlato dell’Occidente, quante volte aveva sognato di viaggiare e scoprire quei luoghi che profumavano di libertà. Come ogni giovane ragazza ne era affascinata.
In quel periodo sempre più famiglie lasciavano la Siria in cerca di salvezza: alcuni cercavano rifugio nei paesi vicini; caricavano sui loro mezzi intere generazioni, casse di ricordi e varcavano i confini sperando di trovare una possibilità di sopravvivenza. Altri, per lo più giovani, si lasciavano tentare da uomini senza scrupoli che con la promessa di una vita migliore li trasportavano, in cambio di cifre altissime, sulle coste dell’Europa.
Nulla più che trafficanti di uomini e di sogni. Anche Amal aveva ceduto a quell’illusione e ne era rimasta scottata. Adesso era approdata in questa piccola città, dove stava provando a ritrovare se stessa.
Quando la ragazza terminò il suo racconto, Ilda la guardava con occhi lucidi. 
“Amal” disse “la tua storia è davvero triste ed è terribile pensare che purtroppo accomuna così tante persone. Nessuno di noi né qui né altrove potrà restituirti il tuo paese e la tua famiglia, ma questa è una piccola città e sono convinta che potrai trovare un po’ di pace. Dal canto mio farò quel che posso per aiutarti. Puoi venire qui ogni mattina e avrai per te quanto necessario per nutrirti. Hai un posto dove dormire? Intendo un posto con un tetto.”
Amal scosse il capo. 
Ilda, dopo aver riflettuto qualche minuto, disse: “Vieni, mi è venuta un’idea.”
Si alzò e, preso un mazzo di chiavi accanto alla cassa, fece segno alla ragazza di seguirla. Uscirono dal negozio ed entrando in un vicoletto ad esso adiacente percorsero qualche metro prima di fermarsi davanti ad una piccola porta di legno. Ilda infilò la chiave nella serratura e la porta, cigolando leggermente, si aprì. 
“Ecco, questa è una piccola stanza che avevamo creato anni fa: serviva da appoggio per un ragazzo che ci aiutava in pasticceria. E’ piccola ma c’è un letto, un bagno ed una finestra. Lì in fondo c’è anche un piccolo fornelletto elettrico. Se ti va puoi stare qui. Certo occorre dare una bella pulita. Questo locale è rimasto chiuso per anni, ma potrà diventare accogliente” disse sorridendo.
Amal si guardò attorno: “Io…non posso accettare… non saprei come pagare…”
“Non ti preoccupare” rispose Ilda “questo è quello che io posso fare per te e i soldi non mi interessano. Questa stanza non occorre a nessuno e mi fa piacere poterti aiutare. Se vorrai potrai darmi una mano in pasticceria, sono rimasta sola ormai e un po’ di aiuto e di compagnia mi faranno piacere! Potrò insegnarti le mie ricette e tu potrai insegnarmi a preparare i dolci della tua terra!” disse con entusiasmo.
“Non so come ringraziarti. Davvero!” disse Amal con il cuore e lo sguardo colmi di gratitudine.
“Non serve ringraziarmi cara ragazza, noi tutti siamo responsabili di ciò che accade nel mondo, anche a migliaia di chilometri dalle nostre case e, quando possiamo, dobbiamo provare a porvi rimedio dando il nostro aiuto.”
Amal, il volto rigato da lacrime di felicità, strinse la mano della donna. Adesso anche lei aveva una casa, un lavoro e un giorno, chissà, avrebbe incontrato qualcuno di speciale con cui condividere la sua vita e costruire una famiglia.
Mentre rientravano in pasticceria, Amal intravide in lontananza un grosso cappotto verde ed un foulard a righe: da lontano Eleide, appoggiata ad un lampione, sorrideva soddisfatta.
L’orrore della guerra aveva cancellato tutto, aveva cancellato la terra ed il passato di Amal, ma non poteva cancellare i buoni sentimenti di chi ancora credeva nella solidarietà. E soprattutto non poteva cancellare la speranza in un mondo migliore.

mercoledì 14 gennaio 2015

Reportage: Oman, medio oriente in pace

(All rights reserved) Foto di Andrea Sanfilippo.
Il sole sta per tramontare dietro le colline pietrose di Muscat.
Grida di incoraggiamento, di gioia, di sconfitta provengono da uno spazio al di là di un muro. Ci avviciniamo ad un’apertura nella parete di cemento, un omone dal viso nero sbuca dalla grossa fenditura e ci incita ad entrare.
Scavalchiamo e davanti a noi si apre un campo di terreno delimitato da pietre e piccoli ciottoli: è in corso una partita di calcio dove due squadre miste di arabi, nigeriani ed indiani, con le maglie dei loro idoli, si battono per la vittoria, guidati dai rispettivi irruenti allenatori.
Assistiamo all’incontro accanto ad una scarna ma caldissima tifoseria fino a quando il canto del Muezzin inizia a risuonare tra le strade della capitale.
I giocatori si fermano di colpo, come al fischio dell’arbitro che annuncia il termine della partita. Un arabo che, con il suo bambino, ha seguito con noi la partita ci guarda e, sorridendo, ci spiega in un perfetto inglese che è arrivato il momento della preghiera.
Siamo in Oman. Quando la Moschea chiama, anche il calcio, sport molto amato, si ferma.
Ritorniamo anche noi sulla strada principale mentre i calciatori e i loro tifosi si affrettano verso la vicina Moschea. Salgono rapidi le scale, lasciano le scarpe all’esterno e si accingono ad entrare per inginocchiarsi e pregare il loro Dio.
Non possiamo entrare durante la preghiera: non siamo musulmani. Restiamo fuori alla grande struttura, dal cui minareto decorato, grossi altoparlanti diffondono il canto liturgico.
Una cantilena intensa, coinvolgente, persuasiva, che riempie l'aria, i cuori e che ti fa comprendere quanto sia dirompente la forza del loro credo.
Saliamo su un taxi. Il tassista recita a bassa voce qualche verso del Corano. Durante le ore di lavoro – ci spiega – i credenti sono esentati dalla preghiera in Moschea, ma lui come molti partecipa comunque spiritualmente a questi momenti.
Gli Omaniti amano parlare, amano raccontarsi, condividere il loro mondo e conoscere il tuo. L’ospitalità è parte della loro cultura e, con i loro visi aperti, il loro sorriso e la loro affabilità riescono a darne prova in ogni circostanza. Un’ospitalità ed una genuinità che non sono state strappate via dalla forte modernizzazione del paese.
Dopo un passato glorioso ed un periodo di involuzione nei primi del Novecento, l’Oman vive oggi un nuovo momento d’oro. Il Sultano Qabus bin Said che ha governato negli ultimi quarant’anni ha abbandonato la politica restrittiva e conservativa del suo predecessore in favore di una politica intesa ad una maggiore democratizzazione e alla crescita sociale ed economica del sultanato.
Ne parliamo con Stanley, un trentenne originario dell’India, da diversi anni in Oman. Lavora per una organizzatissima agenzia turistica. Appoggiato al fuoristrada aziendale, in camicia leggera e cravatta scura, pronto ad accompagnarci a ritirare la nostra auto, ci racconta di sè, dell’Oman, dei cambiamenti degli ultimi anni, di quanto sia stato fondamentale l’apporto dell’ormai anziano Sultano, profondamente amato dal suo popolo.
Benché l’Oman non sia il più ricco tra i paesi della Penisola Araba, i suoi abitanti godono oggi di un buon tenore di vita, come testimoniano le auto di grossa cilindrata lungo le strade e le gioiellerie sempre affollate, a Muscat come nella piccola città fortificata di Nizwa, famosa per la vendita di oro ed argento.
Attraversiamo con Stanley il quartiere di Ruwi, uno dei più recenti della capitale, che sta progressivamente estendendo i propri confini; qui la crescita economica è percepibile in maniera ancora più sensibile. Grandi ed eleganti palazzi si susseguono l’uno dopo l’altro in questa nuova area residenziale e commerciale.
Apprendiamo che l’economia dell’Oman sta lentamente cambiando. In un paese dagli scarsi giacimenti petroliferi, la pesca in primis così come l’agricoltura, l’allevamento e le attività artigianali hanno sempre rappresentato le principali risorse di questo piccolo sultanato nel fondo della penisola arabica. Ma oggi la politica del paese è nel senso di una sempre maggiore diversificazione che punta alla crescita degli scambi commerciali, anche grazie al libero scambio con gli USA, e alla crescita di un turismo di qualità.
Pulizia, ordine, cura per i dettagli. Fiori e prati all’inglese ovunque: distese di petunie e di manti erbosi non solo nelle vicinanze delle istituzioni o dei luoghi di culto o sul lungomare che si stende in otto chilometri di marmi e mosaici, ma anche lungo le strade che si allontano dalla capitale per addentrarsi poi tra le montagne o discendere lungo la costa.
Cantieri fioriscono ovunque per la creazione di strade, ponti ed infrastrutture che riflettono un gusto che mescola in equilibrio di grande raffinatezza l’architettura tradizionale e i più moderni dettami di linearità ed essenzialità.
La cura che l’amministrazione dedica al proprio territorio riflette perfettamente la via prescelta dal Sultano: rendere l’Oman un paese moderno, vivibile per i sudditi e attraente per il turismo internazionale.
In questo contesto gioca un ruolo importante anche la politica di rafforzamento della tutela ambientale, uno degli aspetti fondamentali di questi ultimi quarant’anni di sultanato. Il Sultano ha sempre sottolineato, infatti, la necessità di proteggere le risorse naturali del paese e ha sempre sostenuto campagne intese ad educare la popolazione ad una maggiore consapevolezza e sensibilità a tematiche ambientali. Si pensi alla delicatezza dell’ecosistema dei deserti dove gli accumuli di spazzatura – che a quelle temperature sono sottoposti ad un processo molto rallentato di decomposizione e smaltimento – rischiano di alterare un equilibrio sensibile anche ai più impercettibili cambiamenti.
La crescita del sultanato, dunque, è anche crescita culturale e sociale, come testimonia tra l’altro anche l’aumento del livello di scolarizzazione e l’accesso – ormai anche da parte delle donne – ai livelli più alti d’istruzione.
Le donne: un tema delicato che inevitabilmente incuriosisce gli occidentali.
Nonostante una presenza ancora forte di donne che, per scelta o per costrizione, indossano il velo integrale, in Oman si registra una significativa differenza rispetto a realtà profondamente conservative come, ad esempio, quelle dell’Arabia Saudita.
Camminando per strada, entrando nelle sartorie dedicate alla moda femminile, percorrendo i vicoli dei suq, ci incontriamo, ci urtiamo, ci scambiamo sguardi carichi di curiosità, il mio viso libero da veli, loro nascoste dietro tulle neri che lasciano intravedere appena lo sguardo. Le donne più conservative appaiono schive, votate ad una naturale riservatezza e diffidenza, come se quel velo nero fosse una barriera tra loro ed il mondo, ma se riesci a dimostrare che ne rispetti la vita e la cultura, se ti mostri affabile e solidale allora lasciano intravedere qualche piccola crepa in quel muro e riesci a strappar loro un sorriso, una parola.
Accanto a questa fetta più tradizionalista, vi è un gran numero di donne che sceglie uno stile di vita più moderno, che non porta il velo o che si limita a coprire i soli capelli. Generalmente si tratta di giovani ragazze che hanno avuto accesso ad un più elevato grado di istruzione, che lavorano, viaggiano e vivono a contatto con culture di ogni tipo. Appaiono più aperte al dialogo, come la collega di Stanley, una ragazza sui trent’anni, gli occhi scuri carichi di brio e vitalità. Vede la patente di guida tedesca, ci racconta del suo viaggio a Berlino, ci chiede di noi, dei nostri programmi. E’ simpatica, socievole e, come molti Omaniti, ha voglia di scambio culturale.
Dai suoi racconti scopriamo che nel piccolo sultanato, le donne godono di libertà ed indipendenza, più di quanto si possa immaginare. Studiano, lavorano, votano, guidano l’auto, amano ballare, escono con le amiche.
Nei tatuaggi e le unghie laccate, negli occhi magistralmente truccati, nei lembi di stoffa dalle tinte vivaci e luccicanti che si intravedono sotto i veli e gli abiti neri, cogli un universo fatto di colori, di vita, di vanità. Certo, questo stona con la forte separazione spaziale che vige nei luoghi pubblici, stona con l’eccessivo senso di “privacy” cui è ancora improntata la vita di molte di loro. Ma quel che si coglie, parlando con la gente del luogo, è che qualcosa stia cambiando; che, ferme le solide radici della cultura tradizionale, la popolazione femminile è orientata ad affermare sempre più i propri diritti costringendo anche i più conservatori a fare i conti con la modernizzazione culturale del paese.
Ma qual è il ruolo dell’Islam in questa terra?
L’Islam è e resta la guida di questo popolo, ne impregna la cultura, ne scandisce la vita quotidiana, con i suoi sacri principi che spingono al rispetto, alla pace, alla giustizia e che trovano traduzione nella profonda ospitalità, nella genuinità e nell’altruismo che contraddistingue gli omaniti.
Benché sia la religione prevalente, in questa regione della penisola arabica, l’Islam convive pacificamente con altre numerose religioni: il cristianesimo, l’induismo, il sikhismo, il buddhismo, il giaismo e via seguitando, che si sono diffuse per la massiccia presenza di stranieri.
Gli immigrati provengono principalmente dall’India come il nostro nuovo amico Stanley, ma nel nostro viaggio incontriamo uomini provenienti anche dal Bangladesh, dal Beluchistan, dal Pakistan e dall’Africa; i più lavorano nella ristorazione o sono impiegati nelle attività manifatturiere.
Ci fermiamo a chiacchierare con alcuni di loro; tutti ci concedono una piccola intervista e, fieri, si lasciano ritrarre in fotografia.
Ci spiegano che la politica del sultanato è nel senso di garantire lavoro ed integrazione agli immigrati e che ciò attira un numero sempre maggiore di stranieri. Benché molti siano meno fortunati del nostro amico Stanley e siano costretti a lavori più umili e faticosi per stipendi più bassi rispetto a quelli degli Omaniti, giudicano comunque buone le loro condizioni di vita.
Molti lasciano le loro famiglie nel paese d’origine, trascorrendo la maggior parte dell’anno in Oman. I più  finiscono col trascorrere quasi tutta la propria vita lontano da moglie e figli; i pochi fortunati riescono a rientrare stabilmente a casa dopo cinque, dieci anni di lavoro e quando incontri uno di loro, vedi il viso distendersi in un sorriso, lo sguardo illuminarsi di gioia, fiducia, di un senso di vittoria.
Omaniti, indiani, Beluchistani, Pakistani, Nigeriani. Popoli diversi, lontani nella cultura, nella religione, nelle tradizioni, ma tutti vicini nel desiderio di conoscersi, capirsi e vivere in armonia.
E così ti ritrovi seduto in un capanno di barasti, adagiato su tappeti e cuscini dalla caratteristica fantasia rossa e nera, il solo sottofondo musicale dello Uit beduino a cullare il silenzio del deserto, mentre bevi thé in compagnia di uomini provenienti da tutto il mondo e ti senti come fossi a casa. 
In un Medio Oriente che sa di pace, di rispetto, di vita.

Per visualizzare il Reportage Fotografico completo realizzato da Andrea Sanfilippo, è possibile visitare il seguente link: "A Tale of Modern Oman".