"The impossible exists only until we find a way to make it possible" Mike Horn

giovedì 1 ottobre 2015

Racconto breve: Asad e Rafiq, storie dall'Africa

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Foto: copyright © 2015 Andrea Giuseppe Sanfilippo

Asad sedeva all'ombra di un grande albero da cui osservava in lontananza il piccolo autobus bianco che si avvicinava lasciando dietro di sé una lunga scia polverosa. 
La strada sterrata che attraversava il villaggio, dividendolo in due ali di capanne e botteghe, si animava di urla e colori ogni volta che uno di quei bus si fermava arrestando per qualche minuto la sua corsa attraverso il Paese. 
Donne e ragazzini raccoglievano le loro merci e si accalcavano intorno al veicolo, sgomitando e scavalcandosi l’un con l’altro, cercando di avere la meglio nel vivace mercanteggiare con i viaggiatori. 
Pannocchie di tenero grano abbrustolito, frutta, verdura, bevande e persino vassoi con spiedini di carne. Ciascuno offriva ciò che il proprio orto o il proprio allevamento produceva. 
Dal canto loro i viaggiatori si sporgevano dai finestrini allungando le mani a testare la qualità dei prodotti offerti nelle grandi ceste che le donne portavano sul capo o nei vassoi spinti verso l’alto dai ragazzini.
Pochi minuti e l’autobus ripartiva, spesso lasciando scontenti tanto i compratori quanto i venditori; gli uni per non essere riusciti a spuntare un prezzo più basso, gli altri per non essere riusciti a concludere una vendita in più. Tanto velocemente quanto era comparso, altrettanto velocemente il bus spariva dalla vista, lasciando in una nuvola di polvere i venditori e le loro ceste, mentre la vita nel villaggio riprendeva il suo tran tran.
Asad si teneva lontano dalla confusione del centro, preferendo piuttosto il silenzio della natura. 
Con il solo arco sulle spalle ed una bisaccia in vita, si avviava lungo la strada sterrata che tagliava in due la savana, mentre le voci ed i rumori delle case e delle botteghe si affievolivano nella distanza sino a scomparire del tutto. 
Ad una decina di chilometri dal villaggio la strada cominciava a costeggiare lo Zambesi, con il suo letto ampio e le acque lente. Un ponte di tronchi vecchio e malandato permetteva di passare sull’altra sponda. Da lì un sentiero si inoltrava nella savana dall’erba alta e gialla. 
Asad non aveva timore. Benché avesse soltanto quattordici anni, aveva imparato a riconoscere ogni rumore ed ogni campanello d’allarme, come il verso dell’uccello sentinella che avvisava gli animali della savana della presenza di un pericolo. 
Non vi era impronta che non sapesse identificare, né odori o versi che non sapesse ricondurre all’animale giusto. Sapeva quando fermarsi, nascondersi, arretrare. 
E sapeva anche quando scoccare una delle sue preziose frecce. 
Asad non si separava mai dal suo arco, una delle poche cose che gli restava della vita passata. Il padre lo aveva costruito in occasione del suo decimo compleanno, l’ultimo che Asad aveva trascorso con la famiglia. 
Quell’anno, infatti, una grave epidemia di colera aveva colpito il distretto decimandone gli abitanti ed Asad era l’unico sopravvissuto della sua numerosa famiglia. 
Il padre era stato l’ultimo a lasciarlo, gettandolo nello sgomento e nella disperazione. Per tre giorni il bambino non aveva lasciato la capanna. Non aveva mangiato né dormito, vegliando instancabilmente le spoglia del padre, quasi questi potesse d’improvviso risvegliarsi. Soltanto al mattino del quarto giorno qualcuno si accorse di lui. 
Kainda, la giovane sorella della madre di Asad, insospettita dalla prolungata assenza di visite da parte di quest’ultima, aveva deciso di recarsi nel villaggio. 
Con il cuore che le batteva forte, si inoltrò tra le capanne sino a giungere alla casa di Asad. Il cortile era vuoto. Non c’era il profumo dei panni stesi ad asciugare al sole, nessuno era seduto ad intrecciare bambù all’ombra della grande buganvillea rossa, né si udivano gli strilli giocosi dei bambini. 
Kainda si fermò ad un passo dalla porta della capanna, con il più macabro dei presentimenti. Si fece coraggio e spinse con la mano la porta di paglia intrecciata, mentre i bracciali di metallo colorato le tintinnavano al polso. 
Un odore acre le colpì le narici costringendola a coprire il naso con un lembo dell’abito. La porta aperta fece filtrare un raggio di luce che investì la sagoma di Asad, seduto a terra, le spalle appoggiate alla parete, lo sguardo fisso e inespressivo sul padre che giaceva grigio e immobile. 
Kainda lanciò un urlo e scappò all’esterno. 
Un uomo che passava poco distante accorse richiamato dalle urla della giovane. La ragazza non ebbe neanche la forza di parlare ed indicò all’uomo l’abitazione. Quest’ultimo entro’ riconoscendo subito l’ennesima casa e l’ennesima famiglia colpite dal colera. Udi’ il respiro flebile di Asad e vide i suoi occhi asciutti guizzare nella penombra. 
“C’è un bambino vivo qui dentro!” urlo’ l’uomo.
Kainda si precipito’ all’interno dell’abitazione e raccolse tra le braccia il corpicino magro e stanco del nipote. 
“Oh Asad, è un miracolo che tu sia salvo. Avrò cura io di te” disse tra le lacrime, mentre lo sguardo vagava nella casa senza vita.
Passarono i mesi e mentre il corpo di Asad recuperava forze ed energie, non poteva dirsi altrettanto per la sua giovane mente chiusa nel dolore. Era sempre stato timido ed introverso, ma il suo sguardo e le sue parole avevano rivelato sin da piccolo una grande vitalità e sagacia. Quello stesso sguardo sembrava adesso sbiadito, confuso, perso dietro pensieri inespressi.
Trascorsero gli anni e Kainda continuò a prendersi cura di lui pur consapevole che non sarebbe mai riuscita a curarne le ferite. Soltanto gli insegnamenti e le lunghe passeggiate nella savana con il saggio del villaggio sembravano riaccendere una scintilla di vita in quegli occhi tristi. E fu grazie a quelle giornate trascorse nel bush che Asad, giorno dopo giorno, silenziosamente, imparo’ a conoscere la savana e i suoi segreti.
Era da poco passato il giorno del suo quattordicesimo compleanno quando, percorrendo il ponte di tronchi che l’avrebbe portato al di là del fiume, sentì voci concitate provenire dal bush. Si fermò per un momento, incerto. Non riusciva a distinguere le parole, ma era evidente che vi fossero diverse persone. Quando udì un flebile barrito provenire dalla medesima direzione istintivamente cominciò a correre finché non si trovò davanti un cucciolo di elefante che giaceva ferito mentre due uomini in divisa parlavano con tono agitato al cellulare. C’era anche il vecchio saggio del villaggio seduto a terra accanto al cucciolo  e intento a valutarne le ferite. Poco più in là il corpo di un grosso elefante insanguinato.
Il vecchio vide arrivare Asad e alzò lo sguardo verso di lui: “I bracconieri” disse grave. “E’ la prima volta dopo tanti anni che tornano in questa zona. Pensavamo di essere riusciti a sconfiggerli, ma ci siamo sbagliati” aggiunse scuotendo il capo con rabbia.
Nonostante le lunghe passeggiate nel bush, era la prima volta che Asad vedeva un cucciolo di elefante ferito e, soprattutto, era la prima volta che vedeva un animale ferito dai bracconieri.
Sentì il viso avvampare ed un moto di rabbia avvinghiargli lo stomaco, mentre le dita si serravano strette intorno all’impugnatura del suo arco.
Il vecchio si alzò in piedi e disse: “Stavo perlustrando la zona quando ho sentito questo cucciolo lamentarsi disperato. E’ stato ferito gravemente al dorso e alle zampe, probabilmente mentre si accanivano sulla madre. Per fortuna nel villaggio c’erano due volontari del centro di recupero per elefanti e sono corso a chiamarli. Ricordi Asad? Una volta te ne ho parlato.”
Asad ricordò che il vecchio gli aveva raccontato che in Zambia, come in altri paesi dell’Africa, c’erano dei centri che si occupavano del soccorso e del recupero di elefanti ed altri animali della savana feriti o rimasti orfani a causa del bracconaggio o dell’attacco dei predatori.  Si inginocchiò accanto al cucciolo , la cui storia gli ricordava in qualche modo la sua e fu pervaso da un’ondata di tenerezza ed empatia. Non avrebbe mai voluto che nessuno, uomo o animale che fosse, potesse provare il dolore che lui stesso aveva provato.
Il cucciolo aveva bisogno di ricevere al più presto cure mediche, ma il centro era distante alcune miglia da quell’area e, in attesa dell’arrivo dell’elicottero, avrebbero dovuto  fare il possibile per tenerlo in vita. 
Asad avrebbe fatto di tutto pur di salvare quel cucciolo e restituirlo alla vita. Aiutò gli operatori a lavare e disinfettare le ferite e lo accarezzò lungamente cercando di tranquillizzarlo.
La sua reazione non passò inosservata ai due operatori del centro, che si scambiarono una rapida occhiata. Avevano imparato a riconoscere subito, tra i giovani del posto, chi aveva le qualità per diventare uno di loro. Ed anche al vecchio saggio non era sfuggita la luce nello sguardo di Asad. Forse la comunanza di esperienze aveva fatto scattare una reazione nella sua mente e nel suo cuore.
Stava calando ormai la sera quando l’elicottero arrivò. Ne scesero altri operatori del centro portando con sé il materiale necessario per soccorrere l’animale.
Asad si fece di lato per non intralciare le operazioni, ma il suo sguardo attento e preoccupato seguiva i soccorritori mentre bloccavano delicatamente le zampe del cucciolo con dei nastri di garza per evitare che agitandosi scalciasse, e poi mentre lo collocavano su un resistente telo verde e lo caricavano faticosamente sull’elicottero. Erano pronti, potevano partire.
Ad Asad batteva forte il cuore, avrebbe voluto andare con loro. Non voleva lasciare l’elefante, voleva sapere se sarebbe guarito, se ce l’avrebbe fatta. Baraki, quasi gli avesse letto nella mente, ricevuto un cenno di assenso dal suo superiore, rivolse lo sguardo al ragazzino e disse senza esitazione “Se il vecchio è d’accordo puoi venire con noi.” 
Asad guardò il vecchio che annuì dicendo “Vai, ragazzo. Avvertirò io Kainda. Inviaci tue notizie quando sarai lì.”
Il ragazzino sorrise. Un sorriso breve, solo abbozzato, appena intuibile. Ma il vecchio lo colse e vi colse la possibilità per il giovane di iniziare una nuova vita.
Asad salì sull’elicottero che si alzò velocemente in volo. Baraki coprì il cucciolo d’elefante con una coperta, mentre un uomo in camice azzurro gli praticava una flebo.
“Come sta?” chiese Asad con apprensione.
L’uomo con il camice lo guardò con un’espressione preoccupata: “E’ molto debole. Ha perso parecchio sangue ed è disidratato. Inoltre è molto piccolo, credo non abbia più di sei mesi. A quest’età, la separazione dalla madre può essergli fatale quanto le ferite che gli hanno inferto.”
Baraki aggiunse: “Gli elefanti sono animali intelligenti e sensibili e se restano soli possono soffrire al punto da lasciarsi morire; e questo vale soprattutto per i cuccioli separati dalle madri.”
Asad chiese: “Voi cosa potete fare per loro?”
Baraki rispose: “Sai, nel centro oltre a curarli, cerchiamo di dargli una famiglia. Ciascuno di noi si occupa di più cuccioli per i quali facciamo, in un certo senso, le veci della madre. Hanno bisogno di essere seguiti come fossero dei bambini. Non puoi immaginare quanto dolore possa provare un cucciolo di elefante rimasto orfano. Proprio come un essere umano.”
Asad, sempre così riservato, quasi non si accorse delle parole che gli uscirono di bocca: “Invece lo so; ho perso la mia famiglia durante un’epidemia quando avevo dieci anni. Se sono vivo e’ solo grazie a mia  zia Kainda.” 
“Mi spiace ragazzo...”
Asad scrollo’ le spalle e accarezzo’ la testa del cucciolo.
“Ami molto la savana Asad?”
“In questi anni il vecchio saggio mi ha insegnato molto sulla natura e gli animali. La savana è l’unico posto in cui  mi sento bene.”
Durante il resto del viaggio rimasero in silenzio; il cucciolo ogni tanto emetteva qualche lamento leggero nel sonno. 
Era ormai buio quando raggiunsero il centro di ricovero. Il direttore, un robusto uomo di mezz’età dal forte accento inglese, si informò sulle condizioni dell’animale e diede subito disposizioni perché venisse trasportato nella nursery. 
Il suo sguardo cadde poi su Asad. “E tu chi sei?” chiese.
“Io sono Asad” rispose il ragazzino intimidito.
Baraki scese in quel momento dall’elicottero e cogliendo l’imbarazzo di quest’ultimo, disse: “Ci ha  aiutato molto  nel recupero dell’animale e abbiamo pensato di fargli vedere come funziona il centro.”
Il direttore annuì intuendo che i suoi ragazzi avessero visto nel giovane le qualità adatte per diventare un membro della squadra.
Il cucciolo venne portato nella nursery, seguito da Asad e Baraki. 
Il direttore era dietro di loro. “Baraki, ancora un caso di bracconaggio?”
“Sì direttore, è il quinto soltanto in questo mese, ma è il primo in quella zona. A quanto pare il  Governo ha tagliato i fondi ai rangers e non c’è sufficiente controllo.”
Il direttore scosse il capo grevemente; poi, rivolto ad Asad, che camminava guardandosi attorno incuriosito ed ancora un po’ a disagio, disse: “Grazie a questo centro, giovanotto, vengono salvate molte vite. Il problema però è riuscire a vincere la battaglia più grande: sconfiggere una volta per tutte i bracconieri. Ma finché l’avorio verrà utilizzato nei traffici illeciti, finché continuerà ad alimentare la ricchezza  di guerriglieri e  commercianti, non abbiamo alcuna speranza.”
Baraki proseguì il discorso del direttore: “In molti paesi i guerriglieri fanno strage di elefanti e uccidono chiunque cerchi di fermarli. E poi qui, come in Mozambico o in Tanzania, il bracconaggio è diventato per molti uomini l’unico modo per racimolare soldi per sfamare le proprie famiglie.” 
Baraki parlava in modo concitato. Asad percepiva la rabbia del volontario del centro. Anche lui doveva essere piuttosto giovane, forse non avrà avuto più di una ventina d’anni, ma sembrava molto più maturo della sua età. Niente di strano in una terra difficile come la loro.
Nel frattempo giunsero nella nursery, un capannone di legno e paglia suddiviso in recinti; in uno di essi Asad vide un giovane con il camice azzurro seduto accanto ad un elefante molto piccolo, la flebo attaccata al corpicino che si sollevava ad ogni respiro. 
Il direttore vi si avvicino’: “Come sta?” chiese a bassa voce.
L’operatore, mostrando un viso stanco e preoccupato, rispose: “Anche oggi non ha voluto prendere latte. Stiamo continuando a farle delle flebo. Se continua così non so per quanto riusciremo a tenerla in vita”.
“Che cosa le è successo?” chiese Asad guardando il cucciolo.
“Alcuni giorni fa ci hanno chiamato da un parco nel Nord del Paese. I locali avevano trovato questa cucciola vagare disperata. Non sono riusciti a trovare la madre e non sappiamo cosa sia successo. E’ stato difficile riuscire a calmarla e anche adesso continua a rifiutare il latte. Ieri abbiamo anche provato ad avvicinarla ad una femmina adulta, ma non è servito a niente. Domani ritenteremo. E’ fondamentale che trovi nuovi punti di riferimento” rispose l’uomo.
“E’ importante che i piccoli socializzino tra di loro;  spesso è la terapia migliore. E poi quando  riescono a creare un legame speciale con un elefante più adulto,  superano più facilmente il trauma della separazione dalla madre. E tutto questo è essenziale anche in vista del loro reinserimento in natura” aggiunse il direttore.
Asad spostò lo sguardo dal cucciolo al volontario che l’accudiva. L’emozione nella sua voce, mentre parlava dell’animale di cui si stava occupando, l’aveva colpito. 
Baraki, leggendogli nel pensiero, disse: “Sai, è incredibile il legame che si può creare tra un volontario del centro ed un elefante. Lo segui dal momento in cui viene salvato fino a quando non diventa abbastanza grande e autonomo da poterlo riportare nel bush. Ed anche, dopo, credimi quel rapporto resta per sempre!”
“Il vecchio del villaggio mi ha raccontato che gli elefanti riescono a riconoscere un umano anche  dopo molti anni” disse Asad.
“E’ vero” confermo’ Baraki sorridendo. Poi aggiunse “E adesso andiamo a vedere come sta il nostro amico”.
I tre proseguirono verso il recinto del nuovo arrivato. Asad cominciò a sentirsi impaziente. Aveva paura di quello che i veterinari avrebbero detto. Accanto al piccolo c’erano due uomini che gli stavano somministrando dei farmaci. Il più anziano dei due disse: “Ha un po’ di febbre, ma sono certo che si riprenderà!”
Il direttore e Baraki annuirono soddisfatti. Anche Asad sospirò sollevato, pensando a  quella piccola vita cui si sentiva sorprendentemente quanto inaspettatamente legato. Avrebbe voluto trascorrere la notte accanto al cucciolo, quasi temesse che se l’avesse lasciato non l’avrebbe piu’ ritrovato. 
Tuttavia il direttore era di diverso avviso.“Bene ragazzi, lasciamo che i veterinari facciano il loro lavoro. Noi adesso non possiamo fare molto. Asad puoi dormire nella stanza di Baraki stanotte.”
I due ragazzi uscirono dal capannone ed il direttore rimase a guardarli mentre sparivano nella notte, illuminata solo dalla luna piena e dalle rare luci ancora accese nella grossa tenuta. Dio solo sapeva di quanto il centro avesse bisogno di giovani. Erano trascorsi dieci anni da quando lui e la moglie avevano lasciato il Sudafrica per fondare il centro in Zambia. Lui veterinario, lei sociologa avevano deciso di investire i risparmi di una vita per assistere gli animali rimasti vittima, diretta o indiretta, del bracconaggio. Era stato molto difficile superare le ostilità dei locali e le difficoltà burocratiche ma, infine, il centro aveva visto la luce e negli anni era divenuto un vero e proprio punto di riferimento sul territorio. Non solo in quei dieci anni aveva salvato centinaia di vite, ma aveva  dato lavoro a tanti giovani strappandoli alla povertà. Non tutti erano in grado di far parte di quella organizzazione: soltanto i più volenterosi e quelli che per naturale inclinazione riuscivano a vivere in simbiosi con la savana restavano nel centro di recupero. Il direttore sperò in cuor suo che Asad fosse uno di quei giovani. 
Nel frattempo il ragazzino aveva raggiunto con Baraki l’edificio destinato agli operatori del centro. Mentre si sistemavano per la notte notte Asad gli chiese: “Da quanto tempo sei qui, Baraki?”
“Da circa cinque anni” rispose il ragazzo. “Io non ho famiglia. Fino a quindici anni ho vissuto in un orfanotrofio di Lusaka, poi ho conosciuto il direttore che mi ha parlato del centro e della possibilita’ di lavorare per lui. E così sono venuto qui. Non avevo mai vissuto nella savana e quando sono arrivato ogni giorno è stato una scoperta. Fino a quel momento avevo sempre avuto un senso di vuoto, ma qui è cambiato tutto. So che il mio aiuto è importante e che la mia presenza è fondamentale per i cuccioli che mi affidano, perché da me dipende il loro futuro.”
Asad lo ascoltava in silenzio. Per lui la savana era stata tutto nella sua giovane vita. Era l’unico luogo in cui si sentiva vivo. Tacque per qualche istante, poi disse a bassa voce: “Secondo te potrebbe esserci posto anche per me?”
Baraki sorrise. “Oggi quando abbiamo visto il modo con cui hai partecipato ai soccorsi, abbiamo capito subito che avresti potuto far parte del nostro gruppo. Per questo ti abbiamo chiesto di venire. Sai, tanti di noi sono arrivati qui quasi per caso. Qualcuno è andato via, qualcuno è rimasto. E’ un lavoro faticoso. Meraviglioso, certo, ma richiede anche tanto sacrificio. Pensi di potercela fare?” 
“Io…” esitò per un brevissimo istante. “Io voglio provare”.
“Bene, allora domani ne parlerò con il direttore.”
Baraki spense la debole lampada che illuminava la stanza e i due giovani caddero in un sonno profondo cullati dai rumori della savana.
All’alba Asad fu svegliato dalla voce di Baraki. Ebbe bisogno di qualche secondo per realizzare dove fosse. Poi gli tornarono alla mente le immagini ed i discorsi del giorno precedente e fu pervaso da una duplice sensazione: aveva desiderio di lanciarsi in questa nuova vita, ma al tempo stesso si sentiva disorientato. Doveva ammettere a se stesso che aveva timore di questo cambiamento che l’avrebbe portato a confrontarsi con qualcosa di nuovo, con nuove persone e nuove situazioni; un’esperienza complessa per lui così chiuso ed introverso.
“Ho parlato con il direttore, Asad. Questo pomeriggio vuole incontrarti. Adesso però voglio mostrarti come si svolgono le nostre giornate. Per prima cosa andremo a trovare il cucciolo che abbiamo salvato ieri. Immagino sarai impaziente di sapere come sta”.
Asad annuì. Si vestì velocemente e, insieme, uscirono dall’edificio diretti verso la nursery. Al suo interno alcuni operatori erano intenti a dare il latte ai cuccioli con grossi biberon di plastica. Altri ne controllavano le condizioni di salute. 
I due giovani raggiunsero il recinto del nuovo arrivato. Il veterinario del giorno precedente lo stava visitando. Li vide arrivare e sorrise “Questo piccolo sta dimostrando di avere grinta. Sta decisamente meglio rispetto a ieri. Mi preoccupa soltanto che non voglia mangiare. E’ agitato e appena ci avviciniamo con il biberon ci spinge via con la proboscide”.
“Asad, perchè non provi tu?” propose Baraki. 
Asad era intimidito dal sentirsi al centro dell’attenzione, ma si avvicinò al cucciolo e lo carezzò perché si tranquillizzasse e riconoscesse il suo odore. Soltanto quando parve più calmo, prese il biberon e provò ad avvicinarglielo. Il cucciolo apparve per qualche istante ancora diffidente e poi bevve avidamente.
Baraki ed il veterinario sorrisero soddisfatti e quest’ultimo disse: “A quanto pare questo cucciolo ha trovato in te il suo punto di riferimento!”
Fu quello uno dei primi sorrisi che la nuova vita dipinse sul volto di Asad.  
“Sarai tu a prendertene cura?” chiese il veterinario rivolto al ragazzino.
Baraki rispose per lui: “Sì, certamente. Questo sarà il suo primo incarico nel periodo di apprendistato!”
“Allora benvenuto tra noi ragazzino! Ti aspetta un compito importante!” esclamò l’uomo.
Asad avvampò per l’imbarazzo e la gioia. 
Baraki disse a sua volta: “Sono certo che questo cucciolo sarà in buone mani! Piuttosto, non ha ancora un nome, Asad. Vuoi sceglierlo tu?”
“Rafiq” propose Asad, per il suo significato. Il nome scelto, infatti, significava ‘Amico’ e non era forse quello che stavano diventando?
Dopo la visita al cucciolo, Baraki e Asad trascorsero l’intera mattina nella savana. Baraki voleva capire quale fosse il grado di conoscenza dell’ambiente da parte di Asad ed al termine dell’escursione rimase molto colpito dalle competenze del ragazzo.
Nel pomeriggio, invece, Asad andò a parlare con il direttore e con lui si accordo’ sulle condizioni per il periodo di apprendistato. Asad chiese che una quota del salario andasse a sua zia Kainda, affinchè potesse ringraziarla dei sacrifici sostenuti negli anni. 
Nei giorni successivi Asad cominciò a prendersi cura del piccolo Rafiq, aiutando il veterinario e Baraki. Il piccolo riprese velocemente le forze ma per molti giorni continuò ad essere fortemente agitato. Solo la presenza del ragazzino sembrava calmarlo.  
Per lungo tempo Rafiq rifuggì anche il contatto con i suoi simili, cuccioli o adulti che fossero. Soltanto con tanta dedizione e pazienza, Asad riuscì ad aiutare il piccolo ad integrarsi con gli altri elefanti del centro. 
E man mano che il tempo passava anche il legame tra di loro si rafforzava.
E così trascorsero, una dopo l’altra, le settimane fino a diventare mesi e poi anni.
Asad crebbe ed anche Rafiq divenne grande e forte.
Il direttore e gli altri operatori del centro erano molto soddisfatti del lavoro svolto dal giovane ed erano molto colpiti dalla passione e dalla dedizione straordinaria che vi profondeva. Ed Asad era a sua volta soddisfatto della propria vita. Nel centro aveva trovato nuovi amici, una nuova famiglia. Aveva trovato il proprio posto nel mondo. 
Ed aveva altresì trovato un compagno di viaggio davvero speciale. 
Il ragazzino ed il cucciolo d’elefante avevano condiviso il difficile passaggio all’età adulta ed insieme erano riusciti a trovare la voglia e la forza di reagire alle avversità. Insieme avevano condiviso avventure, giochi, lunghe passeggiate nella savana. 
Non vi era giorno, infatti, in cui non spendessero delle ore insieme camminando fianco a fianco nell’erba fitta, in un silenzio carico di emozioni, quasi avessero imparato a comunicare tra di loro anche senza parole. 
Quando Rafiq si fermava a mangiare o a bere nello stagno, Asad sedeva sotto un albero e restava lì, immerso nel silenzio della natura, come tanti anni prima, ma senza più quel senso di terribile solitudine che gli faceva da sottofondo. L’incontro con Rafiq aveva definitivamente cambiato qualcosa dentro di lui, restituendogli fiducia e calore.
Asad però sapeva che ben presto sarebbe arrivato il giorno in cui il suo vecchio amico avrebbe dovuto prendere la propria strada e sapeva che sarebbe stato un momento difficile per entrambi.
Quando il direttore annunciò l’avvio del programma di reinserimento in natura, Rafiq cominciò a trascorrere sempre più tempo nella savana con la sola compagnia del gruppo di elefanti con cui era cresciuto. 
Per quanto graduale, il distacco non fu facile da gestire né per Asad né per l’animale. Per Rafiq, infatti, la presenza di Asad era divenuta una costante e ci volle del tempo perché si abituasse alla nuova famiglia fatta solo di animali, così come ad Asad sembrava strano non condividere più la maggior parte del tempo con il suo amico.
Arrivò infine il giorno in cui il gruppo di Rafiq avrebbe solcato il cancello dell’orfanotrofio per l’ultima volta. 
Asad era ancora disteso nel letto, mentre un leggero chiarore preannunciava l’imminente arrivo dell’alba. Gli occhi dolenti per l’insonnia seguivano la danza lenta di un’ombra sulla parete. Baraki dormiva ancora profondamente e, nel silenzio della stanza, Asad credeva di sentire il battito incessante del proprio cuore, quasi potesse balzargli fuori dal petto da un momento all’altro.
Non si sentiva pronto per quel momento che aveva provato tante volte a rinviare. Ma era chiaro che  pronto non lo sarebbe stato mai. 
Rafiq non era stato soltanto l’elefante di cui si era preso cura per tanti anni. Era stato l’amico silenzioso con cui aveva condiviso la propria solitudine e i propri pensieri. Era l’amico con cui era riuscito a sconfiggere il dolore ed affrontare di nuovo la vita con il sorriso. Come avrebbe potuto lasciarlo andare? Come avrebbe potuto affrontare adesso quelle giornate senza di lui?
Scacciò via quei pensieri, dandosi dell’egoista e rammentando ancora una volta a se stesso che restituire Rafiq alla natura avrebbe significato restituirlo alla sua vera vita, quella di cui i bracconieri avevano cercato di privarlo. Per quanto rassicuranti, le mura ed i cancelli dell’orfanotrofio costituivano una barriera tra il mondo dell’uomo e quello degli animali, un ostacolo al normale dispiegarsi delle vite di quei giovani elefanti. 
Ma da quel giorno Rafiq sarebbe stato libero.
Asad e gli altri operatori si incontrarono come ogni mattino all’ingresso del capannone di legno e paglia. Radunarono i giovani e vigorosi elefanti e li guidarono verso la savana. L’area prescelta era abbastanza vicina al centro così che gli operatori potessero continuare a monitorarli ed intervenire in caso di bisogno.
Il momento era arrivato. Asad era agitato ed anche Rafiq appariva inquieto, avendo compreso che qualcosa stava cambiando.
Il ragazzo gli si avvicinò e, abbracciandolo, sussurrò “Amico mio, il nostro cammino insieme finisce qui. Insieme siamo cresciuti e siamo diventati forti; adesso dobbiamo imparare a camminare da soli, ma resteremo inseparabili in questa terra e sotto questo cielo che continueremo a condividere.” 
Rafiq appoggiò la proboscide sulla sua spalla quasi volesse ricambiare l’abbraccio.
“Adesso dobbiamo andare Asad”, disse Baraki a voce bassa.
Nella luce rosa e ambra del tramonto Asad guardò il suo amico allontanarsi lentamente nella savana insieme agli altri elefanti.
“Te l’ho detto Asad, il rapporto che si instaura tra un uomo ed un elefante dura per sempre. Sopravvive al tempo e alla distanza” disse Baraki.
Asad sorrise e si avvio’ con gli altri ragazzi verso l’orfanotrofio.
I due cuccioli, cresciuti insieme curando reciprocamente le ferite che la vita aveva loro inferto, erano pronti ad affrontare il mondo e le sue nuove sfide, forti di ciò che erano diventati e con la consapevolezza che ciascuno dei due avrebbe portato dentro di sé un pezzo dell’altro.

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